32.

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Rylie.

La mano di Dylan si strinse sulla mia coscia ed io sbarrai gli occhi, risvegliandomi dallo stato di trance in cui ero caduta. Il cuore mi martellò nel petto e drizzai le spalle, sistemandomi su quella scomodissima e fredda sedia di ferro.

«Stai bene, darling?» Una smorfia di fastidio si formò sul suo viso. Sapevo cosa stava pensando, lo aveva ripetuto cento volte durante il tragitto in macchina.

«Sì, sono solo nervosa, come ogni volta che entro in questo posto.» Mi morsi le labbra e distolsi lo sguardo dal suo, guardandomi intorno.

Odiavo quel posto così sterile e privo di vita, l'avevo odiato dal primo momento che ci avevo messo piede.

«Possiamo sempre andarcene e andare da Richard, penso sia la cosa più sensata da fare.» Mi rimproverò, stizzito. «Non ha alcun senso che continui a nascondergli questa cosa e ti fai visitare da altri medici.»

«Smettila di continuare a ripetermelo.» Sbottai, infastidita.

«E tu smettila di essere così testarda.»

«Puoi anche andartene se vuoi, non ti ho mica obbligato.»

Mi fulminò all'istante, lasciando che i suoi occhi nocciola si scagliassero su di me.

«Lo sai che non lo fare mai.»

«E allora smettila di assillarmi e sta zitto, dirò tutto a Richard quando mi sentirò pronta.»

Mi lanciò ancora un'occhiataccia e si tirò indietro sulla sedia, incrociando le braccia al petto.

Sbuffai l'aria accumulata nei polmoni e mi passai una mano sul volto, ero stanca e non vedevo l'ora di tornare a casa. Lui non capiva, e in realtà non mi capivo nemmeno io. Avevo promesso a me stessa che avrei detto tutto a mio padre, ma avrei aspettato la fine delle pratiche per il riconoscimento.

Dylan sospirò e mi prese la mano, si portò il dorso fino alle labbra e mi lasciò un bacio sulla pelle fredda. Strinsi forte la presa e tremai, impaurita. Non volevo che mi lasciasse, lui era l'unica cosa a cui potevo appigliarmi in quel momento.

«Andrà tutto bene.» Cercò di rassicurarmi, lasciando che un triste sorriso gli dipingesse il volto.

Eravamo allo studio medico della dottoressa Gwen e avevo appena finito di sottopormi ai svariati esami di routine. Le avevo spiegato che spesso mi si alzava la febbre, la testa mi girava, avevo la nausea e non mi sentivo bene. Stavamo aspettando il mio turno ed il mio nervosismo era alle stelle, e non facevo niente per nasconderlo.

«Farai tardi agli allentamenti.» Gli ricordai, fissando l'ora sul display del mio telefono, lasciandogli intendere che poteva anche andarsene, o mi sarei sentita in colpa per avergli consentito di accompagnarmi.

Eravamo fuori New York, quasi vicino a Bedford, ma lui aveva insistito di seguirmi, quando dopo le lezioni voleva darmi un passaggio a casa ma io gli avevo detto che dovevo recarmi a quell'appuntamento.

«Non importa, ho già avvisato Michael che arriverò più tardi, abbiamo tutto il pomeriggio per allenarci.» Mi spiegò.

Dopo quello che era successo con suo padre e sotto quella doccia, era come se avessimo trovato un punto di equilibrio. Non c'era stato niente tra di noi, ma c'eravamo incastrati perfettamente. E mi ero resa conto che era quella l'unica cosa che volevo da lui. Dylan aveva lasciato che le sue insicurezze venissero fuori, aveva fatto sì che si liberasse come meglio poteva del male che gli aveva fatto quell'essere, che per ovvi motivi non poteva nemmeno definirsi padre.

Andava tutto liscio; io stavo bene con lui, lui stava bene con me. Ci bastava.
Anche se sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il disastro.

Fino ai tuoi occhi - Secondo volumeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora