47.

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Devon.
Otto mesi prima.

Non riuscivo a controllarmi. Non sentivo niente. Ero immobilizzato nel buio della mia mente che si stava risvegliando lentamente, creandomi un dolore allucinante alle tempie.

Sentì la pesantezza delle ciglia sulle palpebre, rendendomi quasi impossibile aprire gli occhi impregnati di stanchezza, ma quando ci riuscì, l'unica cosa che visti fu il tetto bianco di una stanza che rifletteva delle ombre di oggetti, e una luce a led sopra la mia testa, spenta.

Non riuscivo a capire se fosse buio fuori, o fosse la stanza ad essere stata messa in penombra. La mia vista sembrava confusa, vedevo tutto sfocato e il naso mi pizzicava per la puzza prepotente di disinfettante.

Risucchiai l'aria nei polmoni, ma non appena lo feci, sentì un dolore allucinante bruciarmi dentro come l'inferno. Tossì, di conseguenza, e restai a boccheggiare l'ossigeno per qualche secondo, prima di capire di nuovo come funzionasse il mio corpo.

Mi ristabilì dopo pochi minuti, o meglio, riuscì a sincronizzare il respiro con il dolore in modo da renderlo meno accentuato.

Alzai il braccio, dove penetrata nelle vene avevo attaccata una flebo, e lo portai al petto, sull'enorme fascia che mi teneva stretto l'addome manco potessi spezzarmi in due.

«Ti sei svegliato finalmente, Devon.»

Una voce femminile arrivò dai piedi del letto, una voce vagamente familiare, ma sicuramente non abitualmente sentita.

Mi sporsi leggermente, alzando le spalle e aggrottai le sopracciglia.

«Grace Layton?» La mia voce era graffiata, rauca e debole. Perfino le corde vocali mi dolevano.

Lei si spostò da lì, e si sporse verso di me, invadendo l'aria con il suo profumo dolce che sovrastò quello delle medicine, appoggiandomi delicatamente le mani sulle spalle per farmi rimettere giù.

«Sta fermo, non vorrai mica che la ferita si riapra.» Sorrise, in modo debole, e mi scagliò i suoi occhi neri dentro i miei. «Non è ancora guarita del tutto, é stata un operazione delicata e hai bisogno di riposare.»

«Che cazzo é successo? Dove sono?»

Mi guardai intorno, ignorando il fatto che mi avesse appena spiegato le condizioni pietose del mio corpo. Ero confuso, la tesa mi pulsava come se avessi dentro un martello pneumatico che mi stesse sfasciando il cervello.

«Sei a New York, in una clinica privata fuori centro.»

«Cosa? Da quanto tempo sono qui?» Ringhiai. «E tu? Io non capisco, non ricordo niente.»

Avevo il respiro affannato, la bocca asciutta come se non bevessi da anni. Sembrava che un senso di panico mi stesse intrappolando in una morsa senza via d'uscita, uno strato di sudore mi impegnò la fronte, le orecchie mi fischiavano.

Non mi ero mai sentito così debole e impotente in vita mia.

«Devon.» Alzò la voce lei, costringendomi a guardarla. «Sta calmo, ti spiegherò tutto, ma hai bisogno di riprenderti. C'é tempo.»

«Tempo?» Mi portai una mano alla gola, grattandomi la pelle come se avessi qualcosa che si stesse stringendo intorno. «Adesso, voglio sapere adesso che cazzo succede.»

«Va bene!» Esasperò, passandosi una mano tra i capelli neri. «Ma prima tranquillizzati, bevi dell'acqua e respira regolarmente senza agitarti, per favore.»

Lo disse come se fosse facile respirare, capivo palesemente che avessi qualcosa di tagliente nei polmoni, era lì che mi aveva colpito il proiettile. Lo sentivo ancora come se ce l'avessi incastrato dentro, quel dolore acuto che avevo provato, e che non avrei mai dimenticato.

Fino ai tuoi occhi - Secondo volumeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora