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Ufficio di Crowley - Oggi




«Crowley?»

Una sottile lama di luce strisciò - accompagnata da uno stridio prolungato - sul pavimento scuro, allargandosi e allungandosi lentamente come in un pigro sbadiglio.

La polvere che riposava sulle mattonelle di marmo si sollevò da terra, fremente, rimanendo per qualche secondo sospesa all'interno del cono luminoso che si era creato.

Un tacco scuro, a spillo, piombò nel fazzoletto di chiarore strappato alle tenebre con un piccolo tonfo, facendo disperdere le particelle come girini all'interno di uno stagno in cui era stato gettato un sasso.

Shax - gli occhi socchiusi per riuscire a orientarsi nel buio saturo di umidità nel quale era appena entrata - rimase per un attimo lì, immobile a pochi passi dall'ingresso, con la mano sinistra ancora appoggiata alla porta e la destra chiusa a pugno sotto il naso per proteggersi dall'odore di stantio che l'aveva accolta non appena aperto l'uscio.

«Crowley?» Provò nuovamente, portandosi in avanti quel tanto da riuscire a mettere a fuoco - nella poca luce a disposizione, posta tutta alle sue spalle - il piedistallo dove, quanto meno fino al suo ultimo giorno in quella casa, era ospitata una statua di due angeli in battaglia. «Ho provato a bussare, ma...»

Fece un paio di passi avanti, ondeggiando tra uno stordente odore di umidità e un silenzio opprimente che le ricordò - in maniera totalmente opposta eppure sorprendentemente similare - la sala d'attesa dell'Inferno. La seconda era sempre gremita di urla e terrore ma il peso invisibile che riempiva l'aria era analogo, così come l'istinto primario di ogni Essere (anche dei Caduti, benché nessuno di loro lo avrebbe mai ammesso apertamente) immerso in quegli ambienti: voltarsi e fuggire il più lontano possibile. Perché se vi era una cosa nel Creato che nessuno voleva davvero "sentire" - mai, nemmeno i demoni - quella era il dolore.

E l'appartamento - si rese conto quando, continuando ad avanzare al suo interno, colpì con la punta della scarpa destra un'ala di marmo spezzata - ne era, semplicemente, impregnato. Ne erano ricoperte le pareti, i soffitti, i pavimenti... ogni angolo. Si era stratificato poco a poco, giorno dopo giorno, una carta da parati impastata di muta sofferenza che si teneva su grazie al tempo e alla polvere.

«So che sei qui, Crowley» riprese, scavalcando il corpo dell'angelo che - una volta - si ergeva fiero sull'altro. Lui, di tutta risposta, finì di franare definitivamente al suolo, aprendosi a metà lungo la ferita che lo attraversava lungo tutto il busto.

I passi rimbombarono lungo il corridoio, fiocamente illuminato dalla poca luce proveniente dal pianerottolo. Arrivata a metà un odore dolciastro e nauseabondo la raggiunse, facendosi largo tra le dita chiuse che ancora premeva sotto il naso e scendendo lungo la gola come un cucchiaio di fiele denso. Conosceva bene quel miasma (l'Inferno ne era intriso, soprattutto nelle zone di primo approdo dei defunti) e - benché fosse certa che il demone non potesse essere in alcun modo morto (per prima cosa non era facile per una Creatura Celeste, anche se caduta, morire; secondo poi, la comunicazione sarebbe giunta Laggiù pressoché immediatamente insieme alla richiesta di un aggiornamento dei registri infernali) - sentì una punta di apprensione appesantirle le gambe.

Crowley era, da sempre, uno degli elementi più validi della Legione. Lo sapeva lei, come lo aveva saputo Belzebub prima di lei. Non a caso, per secoli, gli era stato concesso di vivere in un realtà a parte: pochi controlli, poca burocrazia, libertà d'azione quasi totale. Certo: aveva commesso anche anche lui degli errori - uno su tutti quello di stringere alleanza e infine invaghirsi (cosa palese a tutti tranne che a loro) di un Avversario - ma restava uno dei Caduti più competenti ed esperti e, con la Seconda Venuta alle porte, riuscire a riportarlo nei propri ranghi poteva fare davvero la differenza tra la vittoria e la sconfitta.

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