38. Cacciata dall'Eden

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Cacciata dall'Eden

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Cacciata dall'Eden


























In casa sua si era canalizzata l'essenza di un portagioie. Gli echi delle nostre risate, l'aroma del caffè sulle sue labbra il secondo prima e sulle mie il secondo dopo, le lenzuola vergognosamente sfatte anche dopo mezzogiorno, le braccia di Desmond che sapevano del suo bagnoschiuma e dei miei vestiti e delle nostre promesse, la sua voce rauca di quando mi svegliava. Erano dei piccoli, preziosi tesori, la felicità una pianta rampicante che si attaccava un po' dappertutto e che andava a consolidare un tipo di paradiso terrestre che differiva da quello presentato nelle Sacre Scritture: non si aggrappava alla natura per delinearne l'entità, bensì al senso di completezza dell'aver finalmente trovato un posto sicuro. Non come luogo fisico ma spirituale, di sensazioni a pelle.

Grazie a questa forte appartenenza che mi legava a lui avevo acquisito maggior consapevolezza di me stessa; di conseguenza, erano subentrate paure e desideri mai provati prima di allora. Era tutto nuovo. Era tutto bello e spaventoso. Se da una parte, durante un rapporto intimo, mi piaceva spingermi un po' più in là rispetto all'ordinario e lasciare le redini in mano a Desmond, dall'altra temevo di star sviluppando un qualche tipo di dipendenza affettiva: stavo più con lui che con la mia famiglia, pendevo dalle sue labbra, ogni cosa dicesse, e in alcune occasioni tornavano alcuni pensieri infelici – "Sono una persona debole se gli permetto tutta questa libertà?", "E se sono talmente presa da non rendermi conto che è un rapporto a senso unico?", "Desmond se n'è mai approfittato?".

Ne seguivano confronti sul divano, dove lui mi assestava delle giocose manate sulla fronte. Mi tranquillizzava. Fino a quando non tornavo a casa, almeno. Respirare aria diversa da quella del nostro Eden era uno schiaffo in faccia, e in un certo senso lo preferivo: riuscivo a focalizzarmi con più lucidità sui miei obiettivi. Fra questi, prefissarmi di parlare dei miei tormenti con uno specialista.

Fino ad allora, avrei provato a sopportare e a riempire i buchi con dell'altro, fra cui visitare il sito della Juilliard e rileggere i requisiti necessari per inviare la domanda di ammissione. Giusto per essere sicura che non fosse cambiato niente dall'ultima volta.

Tre anni.

Son già passati tre anni.

Davanti al portatile, con un ginocchio piegato al petto e un piede che penzolava dalla sedia, scorrevo la rotellina del mouse sulla home page. Un'esplosione di talenti affiancava le informazioni di cui avevo bisogno – foto di allievi che suonavano strumenti a fiato, si prodigavano in passi di danza classica, recitavano sul palco.

Poggiai il mento sul ginocchio, scoraggiata e incantata.

Col cursore volai a selezionare l'angolo inerente alla domanda e all'audizione. Al contempo, un severo tintinnio metallico richiamò la mia attenzione; oltre la porta chiusa, la voce rauca di Olivia e il rimbombo secco ma comunque apparentemente tranquillo del suo "Non per sollevare lamentele, ma sono appena rientrata, avrei bisogno di–". A seguire, versi di assenso e borbottii.

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