2. In una matrioska

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2. In una matrioska







Le fragole non erano servite.

Bethany mi aveva proposto di affogare i malumori nelle cucine, assoldando altri due dipendenti che avrebbero fatto "il lavoro sporco" durante la nostra breve assenza. Non era la prima volta che faceva la scaricabarile. Era successo anche con me, il più delle volte, le veniva naturale quando non aveva voglia di svolgere delle mansioni che l'annoiavano. Ma non me ne ero mai lamentata. Anzi, gliene ero sempre stata grata; assegnarmi dell'ulteriore impiego che mi evitasse il contatto visivo con i clienti corrispondeva a una scialuppa di salvataggio. Liberare i tavoli, passare la scopa sulle briciole, confezionare meticolosamente i prodotti, rifornire il banco dei dolci.

Anche se mi toccava comunque tornare alla cassa.

Sapevo che ricoprire un impiego da banconista comportava un confronto a tu per tu con le persone, ma non avevo avuto scelta quando mi avevano comunicato che mi avrebbero assunta qui, con un tirocinio che prevedeva, tra i tanti doveri, anche quello di... accogliere. Essere schizzinosa non mi avrebbe aiutata, e io dovevo lavorare, respirare aria pulita, ascoltare qualcosa di differente dai pensieri spiacevoli che mi si accumulavano in testa. Non che fuori la situazione fosse migliore. Perché se a casa c'erano troppe voci che mi sfibravano, all'esterno c'erano troppi occhi che urlavano. Urlavano a me. Ne ero sicura, non c'era bisogno di testarlo. Dopotutto, il mondo era fatto di "occhi negli occhi".

Ero sicura che il titolare, il signor Cole, nel corso del colloquio avesse intuito il mio disagio, perché non avevo fatto nient'altro di diverso  che osservargli il cespuglio di capelli brizzolati, o la finestra a forno che gli si apriva alle spalle. Mi ero concessa tre secondi su un volto invaso da una ragnatela di capillari visibili, poi sulla fede, di nuovo sugli inestetismi del viso, e poi ancora il panorama fuori.

Quando lo facevo, però, non stavo bene con me stessa; avvertivo un nido di sensi di colpa intrecciarsi intorno alla bocca dello stomaco, per poi edificarsi su per la gola, ostruendo ogni possibilità di fuggire, di reagire. Se non respiri, non puoi fare. E non facevo. Non facevo mai. Perché quel nido era il risultato di quanto accumulato negli anni, costruito nelle paure che quotidianamente infossavo dietro a un sorriso di cortesia.

Guardare o non guardare. Conflitto eterno, dilemma di cui ero schiava. Meglio di no, piccolo usignolo. Finivo per dare retta a quella vocina che mi era amica, e le vere amiche non dicono bugie. Lo dico per proteggerti, perché ti voglio bene, lo sai che ti voglio bene. Mi proteggeva, affermava, ma al contempo mi impediva di dominare un istinto da vigliacca, che al liceo non mi era mai appartenuto.

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