1: potato leek soup

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Alcuni confusi rumori si insinuarono nelle sue orecchie e li registrò come in un sogno, la vista annebbiata e limitata dalle palpebre che non volevano saperne di alzarsi e aprirsi meglio. C'erano lo scalpiccio della neve sotto un peso, dei passi lontani, qualche guaito, un cane che abbaiava, sempre più vicino, sempre più rumoroso e Jimin aveva un mal di testa tremendo, pulsava come un'emicrania, un punto proprio sulla nuca che sembrava star esplodendo, e quel rumore stava disturbando quel pacifico cullare del freddo nel sonno...

«Cosa c'è, Prometeo? Oh, buon dio-»

Il cane smise di fare rumore e Jimin poté finalmente riposare, l'ultima immagine del cielo bianco di nuvole oscurate da qualcuno che apriva la bocca per parlare ma non emetteva suoni.

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La testa di Jimin pulsava così tanto che lo svegliò. Una fitta di dolore intensa e profonda si scatenò dal retro della sua testa fino ai piedi e, quando tentò di aprire gli occhi, la luce fioca della stanza dove si trovava lo accecò. Grugnì e tentò di tirarsi al petto le gambe, il dolore così forte da farlo piegare su se stesso, ma la caviglia destra urlò e urlò così tanto che anche lui tirò velocemente fra i denti l'aria fredda per non urlare a sua volta. La stanza si cominciò a delineare dietro ai puntini neri e bianchi del dolore che la rendevano di sfondo.

«Piano. Fai piano.»

Una mano calda si posò sulla sua fronte e lo costrinse a stendersi di nuovo, le gambe di nuovo dritte e le mani vicine ai fianchi. Jimin tentò di capire cosa stesse succedendo, gli occhi aperti ma che poco vedevano, il dolore che lo rendeva cieco e una serie di stimoli, tra quelli uditivi e quelli olfattivi, che non riconosceva come casa. C'era odore di legno, di fuoco, che si sentiva scoppiettare in lontananza. C'era un leggero sottofondo di passi, come passi animali, zampe che si muovevano sopra un legno, poi ancora un odore pieno, forse una zuppa. C'era una mano che gli toccava la fronte e le guance, e vedeva se scottava. Aveva la febbre? Probabile, dato il dolore che stava provando e il fatto che facesse caldo, caldo da sudare, e non avrebbe dovuto fare caldo.

Quando riuscì a vedere meglio intorno a sé, Jimin intravide una piccola stanza in legno e una finestra da cui entravano gli ultimi raggi del sole e da cui si vedeva la neve che scendeva, silenziosa, e rendeva la vista innevata ancor più candida. Spostando con nervosismo gli occhi per la stanza, vide che c'erano alcuni quadretti alle pareti, ma non capiva cosa ci fosse dentro. E c'era il letto, un letto morbido ma umile, poco più piccolo di un matrimoniale. E, ovviamente, c'era un uomo, quello che ispezionava il suo volto in cerca di segnali, lo sguardo duro ma dai toni preoccupati. Più che un uomo, era un ragazzo, la pelle candida come la neve, i capelli disordinati e scuri sulla fronte, gli occhi attenti e quasi felini, la bocca dall'aspetto morbido. Era bello, pensò Jimin, una punta di preoccupazione che gli tingeva i bordi dei pensieri di rosso, prima che una fitta lo facesse aggrappare con forza alle coperte del letto. Erano estremamente morbide, ma la sensazione non passò fra le prime delle cose importanti della sua testa, in quel momento.

«Hey, davvero, fai piano. Hai sbattuto la testa, dovresti stare fermo e riposare.»

Jimin cercò di respirare per far passare il dolore, lo sguardo fisso in quello profondo dello sconosciuto davanti a lui, che non lo distolse, piegato leggermente verso di lui. Cosa stava succedendo? Cosa era successo? Un minuto prima era nella neve, a sciare, e poi... Jimin ricordò con un'altra fitta che aveva sicuramente non fatto in tempo a virare quando aveva visto quell'insenatura. Si diede dello stupido mentalmente, e la voce che lo insultava sembrava quella di suo padre.

«C-cosa...»

«Non parlare. Non so cosa tu abbia fatto esattamente, penso tu sia caduto sugli scii.»

Guardando giù senza muovere la testa, Jimin osservò dove la coperta che aveva addosso si alzava in corrispondenza dei suoi piedi. Non si azzardò a muovere il destro perché sapeva che avrebbe fatto male e stava già soffrendo abbastanza così. Era abituato alla sofferenza, ai muscoli tirati, ai nodi nella schiena, ai graffi e ai lividi. Ma mai si era sentito così sconfitto. Come era il suo piede? Slogato? Rotto? E come era arrivato lì, nel caso? Non camminando, sicuramente. E se lo sconosciuto lo avesse fatto a posta? Qualche trappola per tenere lontane le persone dal paese. I vecchi a volte lo facevano. Il paesaggio dalla finestra non era d'aiuto un familiare bianco candido condito di alberi, uguale a tutto quello a cui Jimin era abituato. Eppure, non era casa sua.

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