Howard suonava.
E quando suonava, il mondo aveva un colore diverso.
La luce entrava cauta nella stanza, con il passo attento di un bambino in punta di piedi. Rimbalzava in tenui schizzi dorati sulla superficie lustra delle copertine dei tomi antichi allineati sugli scaffali, giocando sul profilo morbido delle sue guance bianche.
Quando suonava, la luce aveva un sapore più dolce.
Erano sottili filamenti ambrati tesi con attenzione nell'aria immobile. Il tramonto, fuori dalla grande finestra dell'attico, si stendeva in una lastra di scintille, riverberando in riflessi cangianti sulle vetrate dei grattacieli circostanti e avvolgendo la città in quella che sembrava la lucente sciropposità del miele.
Il brusio del traffico venne soffocato del tutto, insieme al disordine informe dei suoi pensieri.
E rimase lui. O perlomeno quello che avrebbe voluto essere. La parte migliore di lui: quella che non balbettava, non camminava in modo goffo e che non abbassava gli occhi davanti a chiunque. Rimaneva la parte di lui a cui era facile volere bene, e che Howard avrebbe voluto saper essere sempre, senza la costante e maligna tentazione di odiarsi.
Affascinante. Talentuoso. Capace.
Un archetto nella mano, che scivolava preciso su quelle che sembravano i delicati prolungamenti delle corde di luce nell'aria. E da cui la musica emergeva vibrando tenue, scivolando fluida dentro di lui, crepitandogli sulla pelle come le carezze di un amante e accendendo i suoi occhi come smeraldi ardenti, dentro i quali si tuffava il crepuscolo.
Quando Howard suonava, parlava al silenzio.
E il silenzio ascoltava.
Ascoltava il suo respiro che oscillava con le note.
Howard, il violino in braccio, si immergeva nella melassa zuccherosa di un sogno irrealizzabile, la sensazione sbiadita di una vita non sua; gli occhi verdi baluginanti, lo sguardo disperso oltre l'orizzonte frastagliato della città dietro al vetro.
E le paure si disgregavano, trasportate via dalla corrente tiepida di nuove certezze.
Il terrore di non essere capace di esistere evaporava nella sicurezza delle dita ad abbassare le corde sul manico o a reggere la grazia dell'archetto. La sensazione opprimente di non appartenere alla propria realtà scemava come il vago ricordo di un incubo lontano. Gli arpeggi zampillavano dalle sue mani attente, e non vi era traccia di incertezza in quella melodia, pulsante come un battito impaziente, frenetica nel desiderio sempre più profondo di continuare a suonare finché il mondo fosse finito; lasciando il ragazzo a nutrirsi solo della propria arte e del ticchettio dei diesis e della gentilezza confortante di un do maggiore.
E dimenticarsi della rigidità del volto di Tanya oltre la porta; della sua voce tagliente di delusione. Scordarsi delle responsabilità e delle aspettative che tambureggiavano su di lui con la violenza della grandine. Far svanire per sempre il gelo estraneo di un universo che non aveva fatto altro che punirlo per il suo essere nato, e che ora sembrava volerlo cacciare via dall'unico posto che avesse mai conosciuto come casa. Ennesimo castigo ingiusto, a cui lui non aveva la forza di opporsi.[1]
La melodia crebbe d'intensità e Howard abbassò le ciglia. I capelli, di un grigio cenere striato del verde frizzante delle fronde estive, catturarono in un vortice il bagliore burroso del vespro mentre lui scuoteva la testa.
Il silenzio lo ascoltò, acquattato negli angoli, serpeggiando sui quadri di paesaggi fantasma appesi alle pareti, luoghi che aveva troppa paura per vedere da vicino. Si insinuò tra le gambe della scrivania, ricoperta di appunti di spartiti lasciati a metà. Nuotò tra i maglioni troppo larghi ammassati sul letto, in cui era bello sparire. Frusciò tra le pagine di vecchi tomi di storia aperti sul pavimento, risalenti a prima che gli orizzonti del possibile esplodessero del tutto.
Howard suonava.
Vaneggiando di epoche e tempi che gli aderivano sicuri alla pelle, ma che non erano altro che i tocchi timidi di uno spettro; tracce incaute di desideri codardi; ondeggianti miraggi di un ragazzino spaventato dal proprio presente che si rifugia in secoli che non esistono più.
Howard suonava il violino.
E ogni cosa si aggiustava.
Lui si aggiustava, i difetti sfumati in un vibrato elegante; i suoi timori più intimi tramutati come per magia in accordi preziosi.
Fa' che duri per sempre, pensò riprendendo fiato tra la fine di Goodnight love di Peter Sandberg e il quasi immediato inizio di The Heart di David Celeste, Per favore, rendi il violino indistruttibile e me immortale... prolunga questo istante all'infinito e lasciamici smarrire. [2]
Ma è questa la parte peggiore dei bei sogni. Svegliarsi fa molto più male.
Il silenzio ascoltò le ultime note saltellanti, orbitando piano attorno alla valigia fatta gettata accanto al letto, che Howard aveva composto in rapidi movimenti nervosi, inghiottendo lacrime di frustrazione, la voglia di urlare che montava nel petto.
Il pezzo finì, e nello stesso istante un paio di netti colpi di nocca alla porta frantumarono l'incanto. Crepe secche si spansero nel cuore di Howard, e il mondo intero gli ripiombò addosso in una valanga insopportabile.
Il silenzio, la pace che si era costruito attorno con tanta minuzia, si dileguò nel nulla. La luce calda e sognante in cui si era crogiolato si raffreddò immediatamente. Il Sole si inabissò dietro i grattacieli di New York in un ultimo guizzo esausto.
Howard riaprì gli occhi, il cui verde intenso era quasi grigio, nell'opacità dello sconforto che adesso sentiva arrampicarglisi dentro.
Strinse l'archetto con mano tremante.
– Sì? – si impose di rispondere in direzione della soglia, sperando che attraverso il legno non si cogliesse il suo tono pericolosamente incrinato.
– Ed, dovremmo essere già in macchina – replicò subito la voce attutita di zia Tanya, asciutta come sempre – Prendi i bagagli e muoviti, avanti. E per piacere – aggiunse spiccia dopo un momento, quando già i passi rintoccanti dei suoi tacchi appuntiti si allontanavano lungo il corridoio – piantala di suonare quell'affare, è tutto il giorno che ho mal di testa.
Howard rimase immobile, il violino ancora appoggiato alla spalla e l'archetto abbandonato lungo la coscia.
Sotto gli occhi impietositi del silenzio, iniziò a piangere.
─── ⋆⋅☆⋅⋆ ──
Cover: fatta con picrew. Mi piace disegnare, ma è troppo rilassante ricreare gli OCs senza tirare fuori la tavoletta grafica.
Note:
[1]: Ad un certo punto, Tanya imporrà di punto in bianco ad Howard di trasferirsi a Mizef per studiare in un'accademia e lui si sentirà profondamente tradito e smarrito.
Non mi è ancora chiaro il perché della decisione di Tanya, dopo anni di reclusione del nipote, ma è certamente collegata ai disordini che stanno avvenendo nell'Alleanza e le continue rivolte anti-Alleanza che si fanno sempre più violente anche sulla Terra.[2]: Non suono il violino, ma questi pezzi li amo e Howard li userebbe senz'altro come fuga dalla realtà.
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Il tempo di un respiro [OCs - Oneshots - Raccolta]
FantasíaPiccoli frammenti di un universo che da anni vive dentro la mia testa e a cui non ho mai trovato il coraggio di dare sbocco. Niente long o intrichi di trama, solo fugaci sperimentazioni con personaggi che lottano per trovare un'identità stabile. Co...