Capitolo 5 - Quando Sono Venuti a Prendermi

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Fui spinta con brutalità dentro un vagone, uno spazio angusto e soffocante, già colmo di altre anime spaventate, uomini, donne e bambini.

L'aria, viziata e densa, gravava su di noi come una seconda pelle, impregnata dei mille odori di corpi troppo vicini.

Intorno a me, il legno grezzo delle pareti e il pavimento freddo erano gli unici punti di contatto con una realtà che sembrava sempre più distante, più estranea. Non c'erano sedili o alcuna forma di comfort in quel vagone trasformato in una prigione su rotaie; solo il pavimento duro su cui sedersi o accucciarsi, cercando di trovare una posizione che potesse alleviare, anche solo per un momento, il dolore dei corpi stanchi e affaticati.

Eravamo ammassati gli uni sugli altri. Le famiglie cercavano di rimanere unite, i genitori avvolgevano i loro bambini in abbracci protettivi.
«Come possono farci questo?» bisbigliò una voce tremante accanto a me. Era Bazyli, un uomo che avevo conosciuto giorni prima in fila per le razioni di cibo. Le sue mani erano strette in pugni, gli occhi fissi nel vuoto. «Siamo esseri umani, non bestie da trasporto.»

La risposta a quella domanda sembrava sfuggire a tutti noi. Il vagone si muoveva incessantemente, un mostro di ferro che ingoiava chilometri, allontanandoci sempre più da tutto ciò che avevamo conosciuto.

«Acqua... per favore, qualcuno ha dell'acqua?» La richiesta disperata di una donna anziana tagliò il torpore che ci avvolgeva, risvegliando in noi la cruda realtà della nostra situazione. Attorno a me, vidi occhi che si aprivano, sguardi che si incrociavano, tutti uniti da una comune vulnerabilità.

Le ore, prive di qualsiasi segnale che potesse indicarne il passaggio, si dilatavano fino a diventare giorni, o almeno così ci sembrava. La mancanza di punti di riferimento, l'assenza di luce naturale che filtrasse attraverso le fessure, rendeva ogni tentativo di tenere il conto del tempo un esercizio futile. Eravamo sospesi in un limbo senza tempo, un'attesa che erodiva lentamente quel poco che restava della nostra forza.

Senza cibo, senza acqua, le nostre condizioni fisiche peggioravano rapidamente.

«I miei figli... cosa faranno ai miei figli?» Il singhiozzo di una madre squarciò il velo di disperazione che ci avvolgeva tutti, una domanda che risuonava nel cuore di ogni genitore presente. Nel buio quasi totale del vagone, lei stringeva a sé i suoi bimbi, corpi piccoli e vulnerabili che cercavano conforto nell'abbraccio materno.

Le condizioni igieniche in quel vagone sigillato erano oltre l'immaginabile sofferenza. Un miscuglio asfissiante di sudore, feci, urina, paura e angoscia che si attaccava al nostro respiro.

Eravamo costretti a sopportare condizioni che avremmo ritenuto inconcepibili in qualsiasi altro contesto, trovando nel nostro reciproco sostegno un modo per affrontare l'indegnità forzata.

Il freddo penetrava fino alle ossa. Non c'erano coperte, e il calore umano, l'unico conforto che ci restava, diventava la nostra più preziosa risorsa.

I bambini, specialmente, soffrivano terribilmente. I loro piccoli corpi non erano abituati a sopportare tali rigori, e i loro pianti di fame e freddo risuonavano nel vagone. Cercavamo di avvicinarli, di avvolgerli tra le nostre braccia, di offrire il poco calore che i nostri corpi esausti potevano ancora generare, ma il conforto che potevamo dare era una goccia in un oceano di bisogni.

Per me, il singhiozzo di quei bambini era una lama che mi squarciava il cuore. Mi ritrovavo a chiedermi come avesse potuto il mondo permettere che qualcosa di così inumano accadesse, come potessimo noi, come specie, infliggere e subire tanto dolore. Il freddo del vagone non era nulla in confronto al gelo che sentivo dentro di me, una disperazione che minacciava di consumarmi.

«Non posso più sopportarlo,» le parole di Bazyli erano un sussurro. «Dobbiamo fare qualcosa, non possiamo solo aspettare di morire qui dentro.»

Cosa potevamo fare? Eravamo intrappolati, le nostre mosse erano limitate dalle pareti di quel vagone che ci portava sempre più lontano da tutto ciò che avevamo conosciuto e amato.

Il brusco arresto del treno ci scosse tutti. La fine di quel viaggio infernale, forse, era vicina.

Orecchie tese cercavano di cogliere qualunque indizio dall'esterno, un segno, una voce, qualcosa che potesse darci un barlume di ciò che ci aspettava. Poi, il suono di passi e voci risuonò distante, un rumore che sembrava provenire da un altro mondo rispetto alla realtà del nostro vagone.

I soldati forse, o semplicemente il cambio della guardia. La nostra immaginazione corse veloce, cercando di dipingere scenari che il buio ci negava di vedere. L'incertezza era un peso addizionale, un altro strato di tormento da aggiungere alla nostra già fragile condizione.

«Che cosa succederà ora?» La domanda era sospesa tra noi anche se inespressa.
Non potevamo sapere, non potevamo vedere. E in quell'ignoranza forzata risiedeva forse la più grande crudeltà di tutte: essere merce.

Le ore di sosta diventarono un tormento psicologico aggiunto. Senza cibo, senza acqua, l'incertezza della nostra situazione erodeva quello che restava del nostro spirito. Alcuni piangevano, altri pregavano, e altri ancora rimanevano in silenzio, persi nei loro pensieri.

In quei momenti, ogni rumore fuori dal comune ci faceva sobbalzare. Un colpo sul metallo del vagone, un cambio nel ritmo dei passi all'esterno, ogni piccola variazione era motivo di speculazioni febbrili. "Stanno venendo a prenderci?" si chiedeva qualcuno. Ma la risposta, come sempre, rimaneva avvolta nel mistero.

Quando il treno riprese il suo viaggio con uno stridio di ruote sul binario, il sollievo fu evidente. Ma era un sollievo amaro.

Il ritmo monotono del treno che riprendeva il suo cammino era l'unico segnale del tempo che passava.

«Alla fine... alla fine torneremo a casa, vero?» la voce della donna si alzò sopra il mormorio costante del vagone.
«No, no, no,» continuava a ripetere, agitandosi, «dobbiamo scendere, è qui che scendo io. Mio marito mi aspetta, non vedete? Con il suo cappello nuovo e il sorriso... quel sorriso che mi ha fatto innamorare.»

Il suo delirio attirò l'attenzione di altri che ora la circondavano con espressioni di preoccupazione e impotenza. Una madre, tenendo stretto al petto il suo bambino, tentò di tranquillizzarla con parole dolci, ma senza successo. «Ssh, è tutto a posto,» le disse, «stiamo tutti andando a casa, ma devi essere paziente, devi restare qui con noi ora.»

Alcuni uomini cercarono di organizzarsi per dare alla donna un po' di spazio, temendo che il suo stato peggiorasse o che diventasse un pericolo per sé stessa o per gli altri. «Dobbiamo mantenerla calma, per il bene di tutti,» disse uno di loro, la voce bassa ma ferma.

Nonostante i tentativi di aiuto e conforto, la donna continuava a delirare, il suo sguardo perso oltre le pareti del vagone, oltre la realtà del nostro incubo. «Lui mi aspetta... dobbiamo andare...»

Infine, dopo giorni che ci sembrarono interminabili, il treno rallentò fino a fermarsi definitivamente.

All'esterno, si sentirono voci autoritarie, ordini urlati in tedesco, il suono inconfondibile di stivali che battevano sul terreno duro. Un freddo pungente ci accolse quando le porte del vagone furono spalancate con violenza, uno squarcio di luce che penetrava l'oscurità in cui eravamo immersi.

«Raus! Raus! Schnell!» Le grida dei soldati ci colpirono come frustate, costringendoci a muoverci. La confusione era totale. Persone spinte e trascinate fuori dal vagone, alcuni inciampando, altri aiutati da mani amiche. L'aria fredda dell'alba pizzicava la pelle.

Di fronte a noi si stendeva il campo di lavoro, un vasto complesso di baracche grigie e filo spinato, torri di guardia che svettavano minacciose.

Ci fecero marciare verso una zona di smistamento, dove iniziò il processo di registrazione. Ci vennero tolti gli ultimi averi personali, ci fu ordinato di formare file per uomini, donne e bambini.

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