Capitolo 20 - Ecco Arriva il Sole

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«Miriam, tieni duro,» sussurrò Zofia, la sua mano stretta intorno alla mia con forza rassicurante. «Sta arrivando, lo senti? Presto tutto questo sarà finito.»
Il dolore era incessante, un'onda che mi travolgeva senza tregua, strappandomi grida soffocate. Le pareti della baracca sembravano avvicinarsi, il legno marcio e le coperte sottili che ci separavano dall'inferno esterno non offrivano alcun conforto. L'aria era pesante, carica di tensione e paura; paura di essere scoperte, di attirare l'attenzione delle guardie con il minimo gemito di sofferenza.
Anca e Ileana tenevano in piedi un paravento improvvisato fatto di vecchi abiti e pezzi di stoffa, cercando di creare un angolo privato in quello spazio condiviso. La loro presenza era importante per me, ma il terrore di ciò che sarebbe potuto accadere se fossero state scoperte mi avvolgeva.
Il parto, in quelle condizioni, senza alcun aiuto esperto, affidata solo alle mani inesperte ma amorevoli delle mie compagne, sentivo ogni contrazione come una battaglia da combattere, una prova di fuoco nella quale ero simultaneamente vittima e guerriera. «Stai facendo benissimo, Miriam,» Ileana mi incoraggiava, la sua voce era calma ma i suoi occhi tradivano la sua ansia. «Ogni dolore che senti è un passo verso la vita di tuo figlio.» Le ore trascorrevano in una nebbia di sofferenza e concentrazione. Ogni tanto, una di noi ascoltava cautamente i rumori all'esterno pronta a segnalare il minimo segno di pericolo. La nostra esistenza nel campo era una costante lotta per l'invisibilità, e ora, in questo momento di estrema vulnerabilità, quella lotta si faceva ancora più disperata.
Finalmente, dopo ore che sembravano giorni, sentii un cambiamento. Un'ultima spinta, un grido trattenuto raccoglieva ogni briciolo di forza che mi rimaneva, e poi il pianto, debole, del mio bambino che squarciava l'aria della baracca.
Era un maschietto, piccolo e incredibilmente forte nonostante tutto.
La sua pelle era delicata, di un colore rosato che contrastava vivamente con il grigiore del nostro ambiente circostante.
Avvolto in uno straccio non del tutto pulito, ma il più morbido che fossimo riuscite a trovare, il suo corpo piccolo e fragile sembrava ancora più minuto. Eppure, non appena fu posto tra le mie braccia, sentii il suo calore diffondersi, una piccola ma potente fonte di vita in un luogo dove la morte era la norma.
I suoi occhi, appena aperti, erano di un azzurro profondo, pieni di una curiosità innocente che sembrava cercare e riconoscere il mondo intorno a lui. In quel primo sguardo, c'era una domanda, un perché senza risposta che perforava il cuore con la sua purezza.
Marek piangeva con una forza sorprendente, il suo primo grido era un richiamo alla vita, un segnale che, nonostante tutto, lui era qui, un nuovo essere che reclamava il suo posto nel mondo.
Il suono del suo pianto, seppur motivo di preoccupazione per il rischio di attirare attenzioni indesiderate, era anche la più dolce delle melodie, un canto di vita nel silenzio oppressivo del campo.
Le sue manine, strette in piccoli pugni come se fossero pronte a combattere le battaglie che lo attendevano, si aprivano lentamente, con fiducia, quando sentiva il tocco della mia pelle.
Era un gesto di fiducia innata, un legame che trascendeva le parole, che mi riempiva di un coraggio che non sapevo di avere.
In Marek, vedevo riflessi tutti i nostri sogni e le nostre speranze per un futuro diverso, lontano da quel luogo di sofferenza. Era il simbolo della nostra resistenza, della nostra capacità di amare e sognare anche nelle circostanze più terribili. In lui, c'era la promessa di giorni migliori.

La 'culla' di Marek era un capolavoro di ingegnosità e cura, costruita dalle mani amorevoli di noi donne unite. Non avevamo a disposizione materiali adeguati o attrezzature da neonato, quindi abbiamo usato ogni risorsa disponibile per creare per lui un nido sicuro e confortevole.
Avevamo iniziato raccogliendo stracci, coperte troppo usurate per offrire calore agli adulti ma ancora capaci di avvolgere delicatamente un neonato. Ogni pezzo di tessuto era stato accuratamente selezionato, lavato con l'acqua più pulita che potevamo trovare e poi asciugato al sole, quando la sorveglianza delle guardie lo permetteva.
La struttura della culla era stata improvvisata utilizzando una vecchia cassa di legno che una volta aveva contenuto rifornimenti per le guardie.
Avevamo smontato e rimontato la cassa, levigando il legno grezzo con pezzi di pietra trovati nel cortile fino a renderlo liscio al tatto, per evitare schegge che potessero ferire la pelle delicata di Marek.
Il fondo della cassa era stato ricoperto da più strati di tessuto, creando una base morbida che potesse accogliere il suo corpo senza causare irritazioni. Sopra questa, avevamo disposto un cuscino fatto di stracci compressi e legati insieme, cercando di dare al piccolo il massimo del comfort possibile.
Per proteggere Marek dagli spifferi freddi e dagli occhi indiscreti, avevamo costruito una sorta di baldacchino sopra la culla. Usando bastoni sottili, ricavati dalla pulizia dei dintorni delle baracche, e vecchi pezzi di stoffa, avevamo creato una copertura che poteva essere sollevata o abbassata a seconda delle necessità.
A completare il tutto, avevamo appeso piccoli oggetti sopra di lui, pezzi di stoffa colorata ritagliati e legati insieme, per offrirgli qualcosa di bello da guardare, stimoli visivi che potessero intrattenere i suoi occhi curiosi nei momenti di veglia.

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