Capitolo 8 - Attraverso il Fuoco e le Fiamme

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Erano giorni che non sentivo Marek muoversi.
L'assenza dei suoi piccoli calci, delle sue risposte ai miei sussurri, alimentava un'angoscia crescente.

La nostra unica forma di assistenza medica proveniva dalle prigioniere stesse, che prima della loro cattura erano state infermiere. Una di queste prigioniere, Katarzyna, aveva guadagnato una certa stima all'interno del campo per le sue capacità di offrire conforto.

Una notte, incapace di sopportare l'angoscia, decisi di rivolgermi a lei. Katarzyna dormiva nella stessa baracca e, nonostante le regole ferree che vietavano di parlare durante le ore notturne, mi avvicinai al suo letto. La svegliai sussurrando, la paura di essere scoperta che mi faceva tremare.

«Katarzyna, ti prego, ho bisogno del tuo aiuto,» le dissi, la voce rotta dall'ansia. «Non sento il bambino muoversi da giorni.»

Mi ascoltò con una profonda empatia nei suoi occhi. «Vieni con me,» mi disse, conducendomi in un angolo più riparato della baracca che avevamo imparato a chiamare casa.

Con le conoscenze dell'epoca, prive delle tecnologie moderne di monitoraggio fetale, dovette affidarsi a metodi più tradizionali per assicurarmi che il mio bambino stesse bene. «Sentiamo il suo battito,» propose, con una sicurezza che mi colmò di speranza. Facendomi sdraiare con cautela su un fianco, utilizzò la tecnica della palpazione e dell'ascolto diretto, posizionando delicatamente il suo orecchio contro il mio ventre disteso.

«Rilassati, Miriam,» mi sussurrò, mentre le sue mani esperte eseguivano movimenti leggeri ma precisi sul mio addome, cercando di percepire il piccolo essere che cresceva dentro di me. Dopo alcuni momenti che mi parvero eterni, un sorriso illuminò il suo volto, e alzò lo sguardo verso di me. «Il tuo bambino è forte,» annunciò, con una gioia che si rifletteva nei suoi occhi. «Sento il suo cuore battere regolarmente. È un buon segno, Miriam. Significa che sta bene, nonostante tutto.»

In quel momento, le lacrime mi rigarono il viso, lacrime di sollievo, di gioia, di gratitudine verso Kata e verso quella piccola vita che, contro ogni previsione, continuava a crescere dentro di me.

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Arrivò il tifo. I sintomi iniziarono come un sussurro, febbre leggera e mal di testa, ma presto divennero un urlo impossibile da ignorare: febbre alta, esaurimento, dolori lancinanti e, nei casi più gravi, delirio e perdita di coscienza. La malattia, portata e diffusa dai pidocchi, trovava terreno fertile nel sovraffollamento, nella sporcizia e nella mancanza di cure mediche adeguate del campo.

«Non mi sento bene,» mi confidò una compagna di sventura, avvolgendosi in un abbraccio tremante mentre la febbre iniziava a salire. Le sue parole erano flebili, quasi soffocate dalla stanchezza che il tifo portava con sé come un pesante mantello. Attorno a noi, il numero di ammalati cresceva ogni giorno.

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