Capitolo 24 - Il Taglio Finale

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La depressione di Ileana non era un nemico visibile come le guardie o le latrine, ma era altrettanto crudele. La vidi ritirarsi sempre più dentro se stessa, i suoi occhi una volta vivaci ora spenti, come se avesse smesso di vedere il mondo intorno a lei.

Parlava raramente, e quando lo faceva, le sue parole erano cariche di colpa e disperazione.

«Non avrei mai dovuto lasciarla andare quella mattina,» mi confidò una sera, la sua voce un sussurro tra il vento freddo che sibilava attraverso le fessure della baracca.
«Avrei dovuto tenerla con me, nasconderla... fare qualcosa.» La consolai come potevo, ma le parole di conforto erano palliativi deboli contro la ferita aperta del suo cuore.

«Hai fatto tutto ciò che potevi, Ileana,» le dissi, stringendole la mano. «Non potevi sapere...»
Ma Ileana scosse la testa, interrompendomi. «Non è abbastanza, Miriam. Non per me. Ogni giorno senza di lei mi ricorda il mio fallimento come madre. Come posso vivere con questo peso?»

La colpa è una compagna di vita crudele, e per Ileana, fu insopportabile. Vedendola lottare con il suo dolore, cominciai a temere il peggio. Disse più volte di non sopportare il dolore che la consumava. Era chiaro che stava contemplando l'impensabile.

Un giorno, mentre camminavamo lentamente verso le latrine, un luogo che era diventato un sito di umiliazione quotidiana, Ileana si fermò all'improvviso. «Non posso più fare questo, Miriam,» disse, guardandomi con occhi che avevano fatto una scelta definitiva. «Non voglio continuare a vivere in questo inferno. Non senza lei.»
Il mio cuore si fermò. «Ileana, per favore, non dire queste cose. Lei non vorrebbe...»
«Non capisci!» mi interruppe, la sua voce un grido di angoscia. «Lei è tutto ciò che avevo, tutto ciò che amavo. Senza di lei, non ho nulla, nessun motivo per...» Non completò la frase, ma non era necessario. La disperazione nelle sue parole era chiara, e la mia paura per lei crebbe esponenzialmente.

Fu pochi giorni dopo quella conversazione che il mio peggior timore si avverò. Una mattina, Ileana non si presentò per l'appello mattutino. La trovammo in una parte isolata del campo, dove aveva usato un frammento di stoffa strappata per porre fine alla sua sofferenza. Il dolore e il senso di colpa l'avevano sopraffatta, lasciandoci a contemplare la sua scelta definitiva sotto il cielo grigio di Treblinka. La sua morte fu un colpo devastante, non solo per me ma per tutte le donne della baracca.

Quando vidi il corpo di Ileana, il mondo sembrò fermarsi. Un nodo si formò nella mia gola, e le lacrime iniziarono a scorrere liberamente sul mio volto. Mi avvicinai, tremante, e mi inginocchiai accanto a lei, prendendo delicatamente la sua mano fredda tra le mie. Era una scena che avrei voluto cancellare dalla mia mente, ma sapevo che sarebbe rimasta impressa nei miei ricordi per sempre. «Addio, mia cara amica,» sussurrai attraverso i singhiozzi. «Perdonami per non essere stata in grado di alleviare il tuo dolore. Spero che ora tu possa trovare la pace che qui ti è stata negata.» Intorno a me, altre prigioniere cominciarono a radunarsi, alcune piangevano silenziosamente, altre esprimevano sussurri di preghiere o parole di conforto. La solidarietà tra di noi, anche nel dolore più nero, era l'unico calore che potevamo offrire l'una all'altra. La notizia della morte di Ileana si diffuse rapidamente nel campo. Per molte di noi, fu un doloroso ricordo delle proprie lotte interiori, un riflesso oscuro dei pensieri che molte avevano combattuto in silenzio. Le guardie, indifferenti, si limitarono a rimuovere il corpo senza alcun segno di compassione o decoro, come se fosse solo un altro incarico da sbrigare. Quel giorno, nel dolore e nella rabbia per la perdita di Ileana, sentii una risolutezza ardente crescere dentro di me. Non avrei lasciato che la sua morte fosse invano. Dovevo continuare a lottare, per lei e per tutte le altre che ancora speravano in un domani.
Nei giorni successivi, il nostro gruppo si unì ancora di più. La tragedia di Ileana ci aveva mostrato quanto fosse vitale il nostro sostegno reciproco. Cominciammo a parlare più apertamente delle nostre paure e dei nostri dolori, condividendo non solo il cibo e le coperte ma anche i carichi emotivi che ciascuna portava. «Non possiamo permettere che la disperazione ci vinca,» dissi una sera, mentre ci stringevamo intorno a un piccolo fuoco che avevamo acceso clandestinamente. «Dobbiamo ricordare chi siamo, da dove veniamo, e chi vogliamo essere una volta che tutto questo sarà finito. Per Ileana, e per tutte quelle che non sono più con noi.» Le parole sembravano piccole cose in confronto alla vastità del nostro dolore, ma erano tutto ciò che avevamo. E in qualche modo, erano abbastanza per quel momento. Abbastanza per darci la forza di affrontare un altro giorno, abbastanza per mantenere accesa la fiamma della speranza, non importa quanto fosse debole.
La vita nel campo proseguì, ogni giorno una replica del precedente, ma ora portavamo il ricordo di Ileana come un estuario di forza. Avevamo perso una amica, ma avevamo trovato un nuovo motivo per lottare.

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