Serra delle Volpi Parte 8

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- Allora le zie e la nonna sapevano già, dove fossi e cosa stessi facendo - penso.

Così ho saputo anche chi era quel motociclista dai grandi occhiali gialli, che nella mattinata avevo visto passare, e salutarci dalla provinciale; nessuno però, mi ha detto chi fosse quel ragazzino abbracciato dietro di lui sulla moto.

Meglio di così non poteva andare; tutto è finito bene per me, con la promessa, che però ho dovuto fare, di non andare più a pascolare le vacche.

Una promessa fatta a malincuore la mia, perché mi è piaciuto portare le vacche al pascolo; primo, perché è stato tempo passato in campagna, e all'aria aperta, con tutti quei profumi provenienti dalle piante e dai fiori; secondo perché lontano dai rumori, e nella quiete più assoluta, eccezione fatta per i campanacci delle vacche, l'abbaiare saltuario dei cani e il cinguettio degli uccelli.

In quel frangente poi ho osservato e cercato di capire il comportamento degli animali, quale ad esempio il perché la vacca nera al pascolo permetteva a quella pezzata bianca e nera di pascolarle vicino, mentre non lasciava che la avvicinassero la bruna e neanche la pezzata rossa.

La spiegazione c'era: la vacca nera era la mamma della pezzata bianca.

Ho visto anche che quando un insetto si poggiava su di esse, nonostante avessero la pelle dura e spessa lo avvertissero immediatamente, e lo scacciavano con un rapido tremolio della pelle, proprio nella zona del loro corpo dove questo si era posato.

Segno di un'elevata sensibilità, mi ha spiegato zio, dovuta ai fasci di nervi sottocutanei: che noi umani non abbiamo.

Per la cena è ancora presto, ma io avverto un certo languorino allo stomaco; per via delle vacche non ho mangiato niente, e così mi viene in mente la focaccia.

In cucina, sollevo il coperchio della matrella ma non vedo nessuna focaccia: neanche un pezzo, solo un piatto coperto con un altro.

Tengo con la mano sinistra il coperchio aperto e chiamo nonna, chiedendole della focaccia: se per caso ce ne fosse rimasto un pezzo anche per me.

Da lontano, in dialetto e con voce alterata, mi dice di scoperchiare il piatto nella matrella: la focaccia è lì.

Sollevo del tutto il coperchio e tolgo il piatto; un bel pezzo grande e farcito con due grosse fette di prosciutto crudo appare alla mia vista; col dorso della mano lo tasto: è freddo ma invitante.

Con tutte e due le mani lo prendo, attento a che non sfugga niente, e con l'acquolina in bocca tiro il primo morso.

Anche se fredda, la focaccia è morbida e saporita: il suo magnifico sapore esalta anche quello del prosciutto; calda, sarebbe stato meglio.

Mangio con calma e mastico lentamente; poi, piano piano, mi avvicino alla vetrina e col gomito sposto la tendina di seta bianca ricavata dal paracadute americano.

Guardo il sole che, oramai quasi coperto dai tetti delle case di fronte, sta già tramontando.

Non so se sono, io a essere ancora piccolo, o invece il pezzo di focaccia a essere grande per me; sta di fatto che ho impiegato parecchio tempo per mangiarlo, ma alla fine gliel'ho fatto: l'ho finito tutto.

Adesso non mi resta che, dopo aver avvisato nonna, sedermi fuori sull'uscio di casa e aspettare che la famiglia si riunisca per la cena.

Non credo comunque, che questa sera vi prenderò parte; quel grosso pezzo di focaccia ripieno mi ha proprio saziato: credo che rimarrà il mio unico pasto della giornata.

Sto seduto lì a guardare la gente passeggiare: prevalentemente giovani, molto di più i ragazzi che le ragazze, come il solito.

Alcune volte capita che un loro gruppo si fermi proprio vicino a me, e così sento i loro discorsi.

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