I need to forget so
take me to Florida.Non avevo mai visto un aeroporto in vita mia. Un film, però, chiamava questi luoghi come "il limbo", dove non sei né di là né di qua. Romanticamente parlando è vero, quando metti piede in un aeroporto sei effettivamente nella città di partenza, ma sei già nella città di arrivo.
Marc Augè, un antropologo ed etnologo, definiva gli aeroporti come dei "non-luoghi", ovvero dei posti sempre uguali in ogni parte del mondo, che ti fanno sentire a casa ovunque tu sia. Ed è vero, in qualsiasi aeroporto tu sia, le dinamiche sono sempre le stesse.
Il viaggio in taxi fu tranquillo, tranne per il povero autista che dovette sopportare Emma nel sedile anteriore che continuava a chiedergli se fosse possibile collegare il suo telefono al bluetooth per mettere la musica.
Dylan era seduto nello spazio tra me e il sedile anteriore, e continuava a fissarmi. Jannik, al mio fianco, tenendo la sua mano sulla mia gamba, chiamò i suoi genitori per avvertirli della sua partenza e anche il suo staff per avvisarli del nostro imminente arrivo.
Avevo tenuto lo sguardo fuori dal finestrino per tutto
il tempo, guardando Seattle illuminata, salutandola. L'adrenalina scorreva nelle mie vene, e la sentivo darmi carica, allo stesso tempo però avevo il peso del tumore che mi gravava sul cuore. Dovevo godermi il Messico al massimo, ma quei pensieri erano lì, dietro l'angolo a tendermi un agguato.- Siamo arrivati a destinazione - annunciò l'autista, tirando un sospiro di sollievo nel sapere che Emma se ne sarebbe andata via dalla sua auto.
Scendemmo dall'auto, prendemmo le valigie e Jannik pagò l'autista. Davanti a noi l'imponente aeroporto dalle vetrate trasparenti dalle quali si intravedevano le persone con le loro valigie che camminavano rapidamente.
Agli angoli del marciapiede antecedente all'ingresso c'erano delle ragazzine poco più piccole di me che, riconoscendo Jannik, parlottavano tra di loro sorridendo. Il ragazzo accanto a me neanche si accorse della loro presenza.
- Può farmi la firma per favore? - chiese l'autista, un uomo basso e in carne, con indosso una maglietta bianca e un cappellino nero. In mano aveva una penna e un taccuino.
- Certo - rispose Jannik, lasciando il suo autografo su quel pezzo di carta e sorridendo cortesemente all'autista, che ci salutò, sfrecciando via.
Emma era ormai impaziente di andare. - Entriamo? - entusiasta di iniziare quel suo viaggio.
- Prima devo darti questo pass, così farai ufficialmente parte del mio team - Jannik diede ad Emma lo stesso cartellino che aveva dato a me qualche giorno prima.
La ragazza, entusiasta, lo appese al collo e sorrise.
- Sono ufficialmente parte della squadra Jannik -Il ragazzo ridacchiò. - Siete parte della mia squadra ora, ma prima di entrare dobbiamo aspettare gli altri - aggiunse.
Nel frattempo, le ragazzine all'angolo si avvicinarono a noi timidamente, tenendo il telefono tra le mani. Le guardai, curiosa di sapere cosa volessero. Chiamarono Jannik qualche volta, sorridenti. Il ragazzo si girò, e le ragazzine non aspettarono un attimo prima di chiedergli la foto.
Non gli chiesero neanche come stesse, o se stessero disturbando. Jannik era diventato come una statuina con cui fare la foto e basta, perché dopo qualche secondo se ne andarono senza salutare. - Che carine - dissi, con tono sarcastico.
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Curls in the darkness || Riccioli nell'oscurità
ФанфикDue mondi così diversi in collisione. Olivia, una giornalista, e Jannik, il futuro del tennis. Se inizialmente la loro era una sola avventura, come gestiranno tutto ciò a cui sarebbe andati incontro? È TUTTO FRUTTO DI PURA FANTASIA, NONOSTANTE SIAN...