Capitolo 1 - Cotswolds

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Il silenzio fu la colonna sonora di quel viaggio intrapreso nei primi giorni di Luglio, quando mi ritrovai a volare oltre oceano per raggiungere un paese che non avevo mai visitato. Niente era andato secondo i miei piani; avevo solo accarezzato il buio, riuscendo per un momento a sfiorare quella pace interiore che ormai non sentivo da tempo. Una serenità spezzata troppo velocemente dalle urla di mio padre e dal rumore della sirena dell'ambulanza che mi aveva portato d'emergenza in ospedale.  Non ricordavo niente di quella notte, se non la confusione iniziale del mio risveglio. Un "bip" constante, il forte odore di disinfettante, la cannula inserita nella mano destra e attaccata a una flebo, i polsi stretti in un paio di fascette bianche. Restai in apnea, cercando di mettere a fuoco ogni dettaglio intorno a me, poi il silenzio venne scalfito da un urlo a pieni polmoni. La disperazione mista a consapevolezza riversata tra quelle quattro mura spoglie, richiamò immediatamente l'attenzione degli infermieri e dell'uomo addormentato su una poltrona a pochi centimetri di distanza da me. In un secondo mi ritrovai accerchiata da camici bianchi e gli occhi si fecero nuovamente pesanti. Volevo solo andarmene, allontanarmi da tutti, risvegliarmi da quell'incubo che non sembrava avere una fine. Rimasi nel reparto di psichiatria per quattro lunghe settimane, attendendo quelle dimissioni che in cuor mio sapevo non sarebbero arrivate presto. Fui colta di sorpresa quando una mattina un'infermiera entrò nella mia camera per comunicarmi che il giorno seguente sarei tornata a casa. Una parte di me sperava che il peggio fosse passato, che sarei finalmente tornata alla mia normalità, ma quando varcai la porta della mia abitazione capii il reale motivo del mio rilascio: sul tavolo della cucina erano adagiati due biglietti aerei e i nostri passaporti; sul pavimento giacevano due valigie già sistemate, pronte per essere caricate in macchina.

«Evelyn mi dispiace, ma non posso rischiare di perderti un'altra volta.»

«Cosa significa?» Dissi indicando i bagagli.

«Sono riuscito a mettermi in contatto con una delle migliori cliniche psichiatriche al mondo. Partiamo domani.»

Trascorsi le nove ore e mezzo di volo rivolta verso il finestrino, con le gambe strette al petto e le cuffie salde sopra le orecchie. Nessuno dei due riuscì a chiudere occhio, nessuno dei due proferì parola: le nostre voci rimasero a Portland, dentro quella casa che ci aveva visti discutere fino alle prime ore del mattino. Così quando tornai con i piedi per terra, mi sedetti all'interno della macchina a noleggio recuperata al nostro arrivo al London Heathrow Airport e osservai il complesso di case in mattoni e dallo stile bucolico sfrecciare fuori dalla vettura. Cotswold era un paesino di campagna lontano dal caos cittadino, perfetto per costruire un centro di salute mentale. Il sole ormai basso nel cielo batteva timidamente all'interno dell'abitacolo nero, mentre dalla radio continuavano a scorrere le notizie odierne.

Mio padre abbassò il finestrino e una folata di vento caldo mi scompigliò i capelli ondulati.

«Non ricordavo fosse così bella l'Inghilterra.» Esclamò l'uomo seduto di fianco a me con entusiasmo, continuando a guidare per quelle strade circondate dal niente. «La prima volta che sono stato qua era per un articolo sulla regina. Londra mi è rimasta nel cuore, un giorno ti porterò a visitarla e...»

«Non farlo.» Lo ammonii continuando a volgergli le spalle.

Si susseguì un momento di silenzio, l'ennesimo, spezzato subito dal suo impellente bisogno di avere una conversazione con me prima dell'arrivo a destinazione.

«Evelyn...»

«No.» Mi voltai sbattendo le mani sul cruscotto. «Smettila di parlarmi come se avessi organizzato una vacanza con tua figlia, smettila di fare progetti o di elencarmi i posti che vorresti tanto farmi vedere e soprattutto smettila di parlarmi dei tuoi viaggi di lavoro. Non ho il minimo interesse nel sentirti parlare di qualcosa che ci ha resi due perfetti sconosciuti.» Sputai, mantenendo la vista fissa davanti a me.

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