AIDEN
Fanculo mia madre, il direttore Harris, quella gabbia di matti e la gente che non sapeva farsi i cazzi suoi.
Quella mattina mi svegliai con una chiamata alquanto strana. Sapevo che i miei genitori erano usciti per recarsi alla clinica alle prime ore dell'alba e che sarebbero rincasati insieme verso le dieci di sera. Li avevo sentiti abbandonare l'abitazione, mentre ero nel piccolo bagno della mia stanza, intento a togliermi i vestiti sporchi di sangue in seguito all'ennesima rissa a cui avevo partecipato. Collezionai così un altro nome da aggiungere all'infinita lista di locali in cui mi era stato proibito tornare. Non avevo un problema con l'alcool, conoscevo i miei limiti e li superavo conscio del fatto che molto probabilmente alla prima parola sbagliata da parte di terzi, sarei finito con le nocche aperte e tinte di rosso. Odiavo le persone e il mondo che mi circondava: troppo perfetto, troppo falso, troppo stretto. Motivo per cui abbandonai la scuola all'età di diciassette anni e iniziai a lavorare negli stessi bar dal quale ero stato ben presto bandito. Gli adulti volevano piegarmi con le loro parole piene di superbia e con le loro regole da quattro soldi. Non avevo mai permesso a nessuno di ridurmi a un semplice soldatino; non ci erano riusciti a scuola e nemmeno i miei genitori. Nessuno poteva mettermi i piedi in testa, farmi dire cose che non pensavo o trasformarmi in un lecca piedi solo per avere due spiccioli in tasca. Ero disposto a dormire sotto un ponte e mangiare dai cassonetti come il peggiore dei barboni pur di non diventare come loro, come i clienti che spesso servivo: uomini di successo con la puzza sotto al naso e con il portafoglio pieno di soldi. Contanti con i quali credevano di poter conquistare il mondo e molto probabilmente alcuni di loro ci erano pure riusciti, ma nessuno sarebbe mai stato in grado di comprare me. Così, quella mattina con nemmeno due ore di sonno e non capendo bene il motivo per cui mia madre mi avesse chiesto di darle un passaggio fino a casa, mi alzai e dopo aver infierito contro ogni santo esistente, sfrecciai con la moto verso quel posto che odiavo con tutto me stesso. Parcheggiai in fretta ed entrai a passo spedito in quel manicomio mancato, sorvegliato a vista dai pazzoidi rinchiusi lì dentro. Appena varcai l'uscio, notai subito la presenza del direttore Harris e quello bastò per farmi irrigidire. Rimasi in piedi, appoggiato alla porta e li guardai di sottecchi; poi l'uomo, che ormai conoscevo quasi quanto mio padre, aprì bocca svelandomi con la sua solita pacatezza il motivo di quello strano invito. Volevano che lavorassi alla Bucolic Clinic per tutta l'estate, che li aiutassi a sostituire una delle infermiere che a breve sarebbe andata in maternità.
Scoppiai a ridere di gusto quando mi resi conto della serietà con la quale mi stavano comunicando le loro necessità. In fondo non era un mio problema, non ero stato mica io a mettere incinta la loro preziosa collaboratrice; se erano rimasti con una persona in meno, la cosa non mi riguardava. Ciononostante, non fu quella proposta di lavoro a farmi saltare i nervi, ma lo sguardo basso e sprezzante di mia madre. Se ne stava seduta dietro la sua scrivania, senza proferire parola, con il suo solito atteggiamento da vittima. Quando rifiutai con ironia la loro proposta, la psicologa rimasta fino in quel momento in silenzio alzò gli occhi per farmi leggere nelle sue iridi lucide tutta la delusione che stava provando. Capii allora che quello stupido colloquio non era stato messo in piedi dallo psichiatra dai capelli perfetti, ma dalla donna che mi aveva messo al mondo. Si nascondeva dietro agli altri perché non era mai riuscita a instaurare un vero rapporto con me o a parlarmi come una vera madre. Troppo legata a quel lavoro che l'aveva trasformata in una strizzacervelli a tempo pieno, non riuscendo a scindere la famiglia dalla sua necessità di psicoanalizzare qualsiasi persona si trovasse di fronte.
Uscii da quella stanza intento a tornarmene a casa, ma il mio piano fu interrotto dal loro inseguimento, dalle parole di mia madre fragili e insicure. L'esatto opposto di quelle che avevo udito da quella ragazzina impertinente, che aveva provato a ristabilire l'ordine con una frase d'impatto sperando di colpirmi nell'orgoglio. Provai una gratitudine immensa quando la vidi indietreggiare dopo che le avevo accarezzato una ciocca di capelli. Quello era il suo posto, a un metro di distanza da me, con il timore negli occhi e la bocca chiusa. Esattamente come i suoi compagni, che ogni volta mi osservavano da lontano temendo ogni mia azione o parola. Nonostante il suo vano tentativo di farmi perdere la partita, avevo abbandonato il parcheggio con l'orgoglio di chi per l'ennesima volta era riuscito ad avere l'ultima parola. Anche se forse l'ultima frase era stata scandita proprio da lei; da lei che aveva provato a definirmi uno stronzo prima che Harris la trascinasse nel suo studio.
Rimasi fedele ai miei programmi e per tutto il giorno non feci niente, se non rigirarmi nel letto cercando di dormire qualche ora prima di raggiungere gli altri a Oxford. Ripresentarci a Londra quella sera non era sicuro, sapevo che dopo aver spaccato il naso a uno dei tanti figli di papà mi sarei ritrovato accerchiato da bulletti con i vestiti firmati e non avevo voglia di riaprirmi le mani in due solo per dare una lezione a gente come loro.
Indossai una t-shirt bianca e un paio di pantaloni neri, poi recuperai il telefono dal materasso e lessi il messaggio di Riggs contenente l'indirizzo dell'evento e uscii prima che i miei tornassero.
Parcheggiai nel vialetto di un'elegante villa nei pressi di Blythewood e sfilai verso il cancello, udendo passo dopo passo gli schiamazzi della gente farsi sempre più vicini e prepotenti. Esternamente la casa era definita da linee pulite, realizzate in cemento e legno e punteggiate da ampie vetrate. Il giardino curato nei minimi dettagli era circondato da una siepe perimetrale e illuminato da vari faretti a luce calda. Oltrepassai il gruppo di persone ferme a qualche metro dall'accesso e ignorai gli sguardi ammiccanti di alcune ragazze con addosso la felpa della prestigiosa università. Mi chiesi sottovoce come fossimo finiti a una festa universitaria, ma ignorai le domande prive di senso prodotte dalla mia stessa mente e raggiunsi i miei amici sul terrazzo che abbracciava la porta d'ingresso.
«Eccolo, in ritardo come sempre!» Esordì Nick, passandomi un bicchiere trasparente pieno fino all'orlo. Annusai il contenuto, riconoscendo subito l'odore pungente del gin e diedi un bel sorso, affiancandomi alla mora dagli occhi di ghiaccio. Le cinsi il collo con il braccio, attirandola a me e lasciai che le sue labbra mi sfiorassero il collo.
«Dopo la festa andiamo da te.» Le comunicai con malizia.
STAI LEGGENDO
Feelings Hunt
FantasyA Portland, in una sera di fine maggio una diciassettenne tenta il suicidio tra le mura della sua cameretta. Il piano della giovane però fallisce e una settimana dopo si ritrova a volare oltreoceano con il padre per farsi ricoverare in una delle pi...