Capitolo 5 - Every choice has a consequence

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AIDEN

Erano le tre di notte, mio padre continuava ad alternare pause infinite a sermoni interminabili sul significato di educazione, rispetto e famiglia. Emisi l'ennesimo sbadiglio e l'uomo di fronte a me sospirò inacerbito, sperando che avessi assimilato almeno una parola di quello che mi aveva detto negli ultimi dieci minuti: "non possiamo più permetterti di comportarti così", "tua madre non sa più cosa fare con te", "devi smetterla di ubriacarti ogni sera" e altre stronzate simili, che in realtà riuscii a udire solo perché in quella casa regnava un silenzio assordante.

«Forse abbiamo sbagliato tutto con te.» Concluse la frase, ricadendo a peso morto sulla spalliera della poltrona e attendendo forse, che fosse la donna seduta vicino a lui a continuare quella ramanzina.

Sua moglie però continuò a guardarmi attentamente con le gambe accavallate e la sua solita postura rigida, non emettendo alcun suono. Difatti si limitò ad abbassare lo sguardo sulle mie mani ancora strette in due pugni, risalendo lentamente fino al mio volto sul quale era dipinto tutto il mio disappunto.

«Smettila.» La redarguì con tono severo. «Smettila di osservarmi come se fossi uno dei tuoi maledetti pazienti!» Sbottai alzandomi dal divano e colpendo per sbaglio il tavolino in vetro al centro della sala.

«Aiden calmati.» Mi richiamò mio padre, già pronto a corrermi dietro.

Avevo acconsentito ad ascoltarli nonostante l'ora tarda, ero rimasto in silenzio per tutto il tempo cercando di non risultare il solito menefreghista del cazzo, avevo provato ad arrivare alla fine di quella conversazione unilaterale mantenendo un comportamento pacato, ma non sopportavo l'espressione di mia madre, i suoi occhi ridotti a due fessure, il modo in cui scannerizzava ossessivamente ogni santissimo movimento del mio corpo.

«Sto solo cercando di capirti.» Per la prima volta udii la sua voce. «Non hai intenzione di dialogare con noi, ormai l'ho capito, quindi non mi resta che interpretare i segnali del tuo corpo.»

Scoppiai a ridere e tornai a stravaccarmi sopra il complemento d'arredo grigio, intenzionato a mettere fine a quell'incontro familiare.

«E sentiamo mamma, cosa sta dicendo il mio corpo in questo momento?»

Portai la caviglia destra sulla gamba opposta e attesi la sua risposta.

«Che sei sulla difensiva, come sempre. Sei rimasto lì, seduto per tutto il tempo fingendo di ascoltarci.»

Aveva ragione, la mia testa era ormai volata sotto le coperte, lontana da loro e dalla discussione che avevo avuto quella stessa sera con Amanda.

«Sono quasi le tre e mezzo e sono ancora qua ad attendere di scoprire quale sarà il mio futuro in questa casa.» Brontolai, riferendomi alle fantomatiche possibilità a cui aveva alluso mio padre.

A quel punto i due si guardarono, connettendosi mentalmente e annuirono all'unisono. Fu proprio l'uomo a riprendere la parola, chinandosi in avanti e poggiando entrambi i gomiti sulle ginocchia.

«Tua madre mi ha riferito che questa mattina hai ricevuto una proposta di lavoro dal Sig. Harris.» Lo guardai sconcertato. «Proposta che ovviamente hai rifiutato, mandando tutti al diavolo.» Concluse, sottolineando il mio gesto poco educato.

Perché erano così ossessionati da quello che mi aveva detto lo psichiatra? Perché volevano che lavorassi lì per tutta l'estate?

«Vi sembro un fottuto infermiere?» Esplosi, incastrando le mani tra i capelli. «Nella mia vita ho lavorato solo in pub squallidi servendo bibite e qualche piatto poco commestibile. L'unica cosa che potrei fare dentro quel posto è riempire i distributori nella sala d'aspetto.»

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