Capitolo 14 - Portland Rose

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Evelyn

L'estate a Londra sembrava non essere ancora arrivata. Il sole lasciava spesso spazio alla pioggia e il cielo aveva la strana abitudine di trasformarsi in un'accozzaglia di colori grigiastri e malinconici, che mi portavano a sentire ancora di più la mancanza di Portland.

Una folata improvvisa di vento mi scompigliò i capelli, che ricaddero sulla fronte messa in ombra dalla visiera di un cappellino. Sfilai l'elastico dal polso e li raccolsi frettolosamente in una coda bassa; poi volsi nuovamente lo sguardo al terreno incolto di fronte a me. Sotto la supervisione di un'infermiera estrassi la prima Campanula dal vasetto di plastica rigida e la posizionai all'interno del terriccio preparato precedentemente. Con cura, posizionai la pianta successiva a una distanza di trenta centimetri dall'altra e continuai così per il resto della mattinata, ammirando di tanto in tanto quei bellissimi fiori violacei.

«Che meraviglia!» Esordì Jack alle mie spalle. Mi voltai in direzione del ragazzo e lo osservai dal basso. «É tutto così perfettamente in ordine. Evelyn sei un disastro nel disegno, ma con il giardinaggio ci sai proprio fare.»

Sorrisi, come non ero abituata a fare da tempo e lo incitai a sedersi accanto a me, notando un accenno di esitazione nei suoi movimenti. I suoi occhi si mossero sulla mia figura, completamente sporca e iniziò a scuotere la testa energicamente.

«Credo che resterò in piedi.» Affermò convinto, forse per nascondere l'ansia procurata dalla sua malattia.

Non insistetti e mi girai nuovamente in direzione dei fiori, contemplandoli ancora una volta. Un'ondata di pace prese a scorrere dentro di me e il dolore sembrò acquetarsi grazie a quella passione che avevo visto nascere nell'Oregon, nel piccolo giardino di casa mia. Socchiusi gli occhi e le immagini presero a scorrere come fotogrammi nella mia testa: vidi me stessa, a nove anni, con addosso una salopette di jeans e due enormi anfibi gialli a calzarmi i piedi. Saltellavo, a destra e a sinistra, aspettando impaziente il ritorno di mio padre, che sotto richiesta di mia madre si era recato dal nostro fioraio di fiducia per ritirare l'ennesimo ordine fatto da sua moglie.

«Eccolo!» Elettrizzata mi catapultai tra le sue braccia e lo aiutai a scaricare dalla bauliera le cachepot rigide, dalle quali sporgevano dei rametti verdi ricoperti di spine.
«Vieni papà, la mamma ci sta aspettando!» Oltrepassammo il vialetto e ci dirigemmo in giardino stando attenti a non far cadere i vasetti.
«Credo di essere geloso delle tue piante.» Affermò l'uomo, chinandosi per rubarle un bacio.
«Almeno loro non russano la notte.» Rispose lei ilare, provocando una risata generale.

«Più vado avanti con gli anni, più le Rose Portland mi sembrano un mistero...» Recitai sottovoce le parole di Peter Beales, un autore e rosario britannico, che avevo conosciuto tramite la passione di mia madre e improvvisamente mi sembrò di percepirne il profumo fresco e piacevole. Jack sembrò non sentirmi, mentre l'infermiera ancora in piedi di fianco a noi, mi rivolse uno sguardo confuso.

«Le rose Madame Boll erano i fiori preferiti di mia madre.» Conclusi con un filo di tristezza nella voce.

La donna sembrò percepire l'ombra caduta sul mio umore e si apprestò ad abbassarsi alla mia altezza per stringermi in un abbraccio. La ringraziai per quel gesto sincero e mi alzai, scuotendo i vestiti con le mani, per seguire gli altri pazienti nella mensa.

Superammo a passo lento il grande giardino ed entrammo di nuovo all'interno della clinica per consumare il pranzo. Fortunatamente, il mal di testa e la nausea erano solo un ricordo; gli effetti collaterali degli antidepressivi erano svaniti, così come stava iniziando ad attenuarsi il senso di vuoto dentro di me.

«Arrivo subito.»

Svoltai a destra e mi diressi ai bagni comuni per darmi una sciacquata alle mani. Un cavalletto giallo vivo vicino all'uscio mi segnalò il passaggio degli inservienti, che ogni giorno si preoccupavano di pulire e igienizzare ogni centimetro quadrato di quell'enorme struttura.

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