Capitolo 15 - Scars

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Evelyn

Dicono che il tempo aiuti a superare il dolore, ma purtroppo ci sono ferite che non smetteranno mai di sanguinare e occhi che non cesseranno mai di versare lacrime.

Tutto ebbe inizio con l'arrivo della polizia e con la voce rotta dell'agente, di cui non dimenticherò mai il nome. Si chiamava Noah, aveva una sessantina d'anni e una barba bianca come la neve. Caddi a terra e tutto intorno a me diventò confuso. Sono sola, due parole ripetute come un disco rotto tra un singhiozzo e l'altro; non sentivo niente, se non le urla strazianti del mio cuore rotto in mille pezzi. Un momento di distrazione, un semaforo non rispettato, due auto coinvolte, una sola vittima.

Così, mentre uno sconosciuto tamponava ferite che sarebbero guarite in qualche settimana, io mi preparavo ad affrontare un dolore troppo grande per una ragazzina di sedici anni.

«Tesoro, dov'è tuo padre?»

Continuavo a guardare di fronte a me, sperando di vederla rincasare, che si trattasse solo di un orribile scherzo. Appoggiata alla parete adiacente alla porta, attesi per tutta la notte il suo ritorno, finché non vidi l'uomo che mi aveva messo al mondo, irrompere nel nostro atrio con una valigia stretta tra le mani e gli occhi rossi e gonfi di lacrime.

«Evelyn ti prego parlami. Sono settimane che te ne stai chiusa nella tua stanza... non mangi, non dormi. Permettimi di starti vicino.»

Non avevo bisogno di mangiare o di dormire, come non avevo bisogno di lui. Volevo solo tornare indietro nel tempo e riscrivere il suo destino.

«Non so come parlarle, non so come aiutarla! Continua a respingermi e io sono stanco di lottare. Ho perso mia moglie, l'amore della mia vita e l'unica cosa che ho fatto da quando sono tornato a Portland, è stare fuori da una porta, aspettando una persona che non conosco più... quella non è Evelyn, non è mia figlia.»

Rimasi seduta in cima alle scale, finché la telefonata non si interruppe e lo sentii accasciarsi sul divano del nostro soggiorno. Forse anche lui era consapevole del fatto, che il suo lavoro lo aveva allontanato non solo dall'America, ma anche da sua figlia.

Chiusi il taccuino che Harris mi aveva regalato il giorno precedente e lo gettai nervosamente sul tavolo cosparso di disegni e matite; poi, mi voltai in direzione della finestra e osservai la pioggia scendere copiosa dal cielo. Quella mattina non proferii parola con nessuno. Mi limitai a sfuggire agli sguardi delle mie compagne di stanza, che come due detective silenziosi avevano provato in ogni modo a capire cosa fosse successo. Nessuno delle due però poteva sapere, né tanto meno immaginare l'origine del mio malumore. Non erano al corrente del bigliettino che avevo trovato la sera precedente e di quelle parole, che mi avevano provocato incubi per tutta la notte. Sognai ferite fresche, strade insanguinate e una casa deserta; vidi gli occhi di mia madre spegnersi sotto la luce verde di un semaforo.

Provai a scrivere qualcosa su di lei, come richiesto dal mio psichiatra, ma quel compito si rivelò sin da subito troppo difficile. Da dove sarei dovuta partire? Dai momenti belli o da quelli tristi? Dal nostro ultimo ricordo felice insieme o da quando avevo visto la sua tomba sparire sotto un cumolo di terra? Dovevo tornare indietro nel tempo o guardare al futuro rimembrando i suoi insegnamenti? Dovevo fare un passo in avanti o tornare a interfacciarmi con un sentiero bagnato dalle lacrime? Portai le mani a coprirmi il volto e mi costrinsi a non urlare; a non riversare tutta la rabbia sulle persone intorno a me, che a differenza mia non avevano cessato neanche per un secondo di parlare.

Jack continuava a muoversi nervosamente sulla sedia; Grace non la smetteva di sventolare la foto di Shaggy, il cane che i genitori le avevano regalato come incentivo per tornare a casa; Allison invece, aveva importunato per tutta la mattina le infermiere, nel vano tentativo di convincerle ad accompagnarla dal vecchio signor Paul per assistere alla nascita degli agnellini.

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