Negazione, rabbia, patteggiamento, depressione e accettazione. Nel 1969 la psichiatra Elisabeth Kübler-Ross elaborò cinque fasi di reazione al lutto. Cinque ostacoli da affrontare, cinque prove da superare, cinque test da vivere sulla propria pelle al fine di tornare a respirare. Avevo sperimentato il rifiuto e negato l'evidenza in ogni modo possibile, considerando il caos che si stava consumando intorno a me, solo un misero incubo dal quale prima o poi mi sarei risvegliata. La disperazione, le lacrime, le frasi di condoglianze, erano solo oggetti di scena di uno spettacolo drammatico al quale ero stata costretta ad assistere, senza mai aver realmente comprato i biglietti.
Nella mia testa quel giorno non era mai esistito, nella mia testa non esisteva la sofferenza perché lei non era morta.
Poi in un attimo, come una tempesta non preannunciata, arrivò la rabbia e tutto iniziò a farsi più nitido. Iniziai così a ripercorrere quella notte, quella chiamata, l'esatto momento in cui la mia vita era stata stravolta. Cominciai a odiare le persone attorno a me, i fiori lasciati su quella tomba in marmo grigio, gli sguardi colmi di compassione di chi a stento conosceva il mio nome. Non esistevano pause per lo scrittore che stava componendo freneticamente la storia della mia vita; nessun blocco lo aveva costretto a retrocedere nella stesura di quelle pagine ricche di aforismi e frasi dette e ridette. Così inaugurai il mio odio per la mattina, sviluppando gradualmente una repellenza contro ogni momento della giornata. Detestavo svegliarmi e guardarmi allo specchio; detestavo il rumore, ma anche il silenzio; detestavo rimanere sola con i miei pensieri, ma soprattutto non sopportavo il mondo al di fuori della mia finestra.
Io volevo solo fermarmi e odiare, detestare così forte da dimenticarmi dell'esistenza dei sorrisi.
Alla seconda fase però seguì quella del patteggiamento e dovetti trovare un compromesso tra i miei sentimenti contrastanti e gli insegnamenti lasciati dall'unica persona che era stata realmente capace di comprendermi e amarmi come nessun aveva mai fatto.
I sorrisi tornarono, più forti di prima, mossi dal desiderio di provare a rendere fiera colei che ormai non c'era più. Dovevo continuare a vivere, dovevo dire addio al risentimento, dovevo tornare a respirare per lei... per lei che non poteva più farlo.
Ripresi in mano la mia vita e tornai protagonista della mia quotidianità; le nuvole improvvisamente abbandonarono il cielo restituendomi la possibilità di ammirare il sole di giorno e le stelle di notte. Intorno a me si celebrava la vittoria di chi finalmente aveva accettato l'accaduto; tutti erano convinti che ce l'avessi fatta, che non ci sarebbero più state giornate grigie, o almeno che al loro ritorno, sarei stata in grado di non perdermi tra quei ricordi annebbiati. Ci credetti pure io, per un piccolo momento sentii crescere dentro di me la certezza, che quella piccola parentesi della mia vita fosse stata solo una prova per testare il mio coraggio. Mi sentii forte quando tornai a varcare i corridoi del mio istituto scolastico, quando la solitudine si trasformò di nuovo in compagnia, quando iniziai a ridere senza riuscire più a fermarmi.Erano passati undici mesi quando l'illusione mi si schiantò addosso come il peggiore dei plot twist. Non provai più rabbia, non percepii più tutte quelle sensazioni negative che mi avevano portato ad allontanarmi da qualsiasi persona della mia vita. Tornai semplicemente a confondere il mondo con il letto della mia stanza, sentendo giorno dopo giorno la vita scivolare via dal corpo. Crollai nell'apatia più assoluta e il soffitto della mia piccola cameretta divenne il cielo che non ebbi più il coraggio di ammirare. Provai a trovare il positivo nella tragedia, a sorridere di fronte al dolore, a ricordarmi delle sue parole, ma tutto svanì e non rimase niente. Così, mentre al di fuori della mia stanza, si consumavano conversazioni che mi vedevano al centro di ogni discussione, io vivevo nel silenzio di chi non riusciva più a camminare, a mangiare, ad alzarsi dal letto. Mi sentii incatenata, un fantasma in una realtà sbiadita, un alieno in mezzo a tanti, troppi esseri umani.
Mio padre aveva deciso di allungare le ferie, permettendomi di godere della sua presenza silenziosa, di un rapporto mai maturato nel tempo a causa dei suoi infiniti viaggi di lavoro. Le nostre conversazioni iniziavano sempre con un vano tentativo di comprendere i sentimenti dell'altro. Avevamo lo stesso sangue, ma eravamo due sconosciuti in balia di un destino troppo beffardo: lui piangeva, io non avevo più lacrime da dedicare alla vita; lui provava a sorridere, io non avevo neanche la forza di inarcare gli angoli delle labbra; lui parlava, io restavo in silenzio fingendo di udire le sue parole; lui provava ad andare avanti, io non riuscivo più a vedere un futuro.
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Feelings Hunt
FantasyA Portland, in una sera di fine maggio una diciassettenne tenta il suicidio tra le mura della sua cameretta. Il piano della giovane però fallisce e una settimana dopo si ritrova a volare oltreoceano con il padre per farsi ricoverare in una delle pi...