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E' davvero tanto sottile il limite che disgiunge l'equilibrio dallo squilibrio? La realtà dalla pazzia. Il giusto dall'ingiusto. Quel confine venne da me superato quando il mio cuore fu definitivamente frantumato in mille pezzi.

Banale. Era questa l'unica parola che avrei potuto utilizzare per definire questa frase, così come i miei sogni, i miei sentimenti. Tutto ciò che contribuiva a formare la mia anonima persona, in tutti i suoi aspetti, era una mera banalità. L'obiettivo consisteva, perciò, nel reprimere tutte le cose ovvie che costituivano il mio essere. Alla fin fine, io mi ero sempre limitata a risultare utile a qualcun'altro, che senso avrebbe avuto dar modo a qualcosa di
surreale di esistere.

Non seppi cosa mi passò per la testa quel giorno burrascoso. Forse era l'inizio di qualcosa che mi avrebbe pian piano logorata dentro. Oppure era il seguito di un evento ugualmente
infelice ed inaspettato, come ciò che lo aveva scatenato.

Nella villetta, la quiete regnava sovrana, nonostante dentro di me
stesse accadendo una tempesta, un rogo di rose selvatiche fra i rovi. Nessuno si trovava lì, a parte me.
Oltretutto, seppur fosse stato presente qualcuno, sarei risultata ugualmente immersa in una sconfinata e nera solitudine. La giornata era nuvolosa. Ricordo tutto nitidamente. Quel
pomeriggio il cielo faceva presagire che ci sarebbe stato un brutto temporale. Anche se nessun genere di intemperie si abbatté sulla città. D'impeto, mi alzai dal pavimento a piastrelle del bagno, recuperai dall'appendiabiti all'ingresso il mio giubbino di pelle rosso. Aprii la porta, chiudendola con un tonfo.

Percorsi velocemente il viale dove abitavo, raggiungendo in breve un
edificio fatiscente nelle periferie di Monte Carlo. Apparentemente un luogo abbandonato, ma io sapevo alla perfezione ciò che quelle mura trascurate celavano, qualcosa di molto diverso da come sembrava. Ben pochi ne erano a conoscenza.
Notai che, come sempre, la saracinesca del garage era semiaperta. Mi accertai che all'interno non vi fosse anima viva, nessuno che potesse rompermi le palle, o a cui io avrei potuto romperle.

Entrai dalla finestra arrugginita che si trovava nella facciata del retro. Afferrai saldamente un'anta delle due che la componevano, già abbondantemente compromessa, scardinandola completamente, nel tentativo di aprirla a forza. Avanzai, guardinga, lungo un corridoio angusto e maleodorante. L'olezzo di muffa che si espandeva per buona parte dell'ambiente mi fece storcere il naso, ma una volta giunta al
termine del corridoio , lo spettacolo che mi si parò dinanzi fu inaspettato.
Non ero mai entrata in quel posto, ovviamente, ma constatai che
almeno su qualcosa Kenneth aveva detto la verità...

Auto sportive di ogni genere, modello, colore si trovavano disposte su due piani, ben curate, lucide, pronte per esser messe in moto. Mi colpì particolarmente la meravigliosa Ferrari mild hybrid, del classico color rosso fiammeggiante. Non ci pensai due volte, visto che le chiavi erano inserite e la macchina aperta, ad alzare un po' di
più la saracinesca, in modo che potessi uscire.

Corsi verso l'auto. Aprii di scatto il portellone e mi sedetti, accomodandomi per bene sul sedile in modo da arrivare ai pedali, premetti il piede su di essi e sgommai fuori di lì.

La zona era un po' come la terra di nessuno. Solamente quell'edificio e pochi altri, ugualmente abbandonati e scalcinati, occupavano a distanza di centinaia di metri l'uno dall'altro gli
appezzamenti di terreno che si estendevano per svariati chilometri
tra prati verdi ed incolti, sterrato ed un accenno di superstrada, ormai in disuso per via delle nuove e più veloci vie di comunicazione, al limitare della periferia di Monaco. Il luogo perfetto per spingere come si deve sull'acceleratore e guidare senza pensieri.

E così feci; la sola cosa che mi facesse sentire totalmente libera,
almeno per qualche momento. Spudoratamente incurante di tutto e tutti. Solo per pochi istanti. Probabilmente minuti, o secondi.
Una volta che il brivido causato dall'adrenalina si affievoliva, la
realtà mi si sbatteva bruscamente in faccia, il suo sapore aspro mi
pervadeva, ed inseguito quello amaro delle lacrime, che solcavano profondamente le mie guance, segnando allo stesso tempo il loro
percorso sull'anima, imprimendo lo stesso con talmente tanta durezza da bruciare, rimarcando le cicatrici indelebili sul mio cuore, dalle quali il sangue sgorgava ancora a fiotti, senza mai risanarsi, stretto nella morsa lancinante dello sdegno che attanagliava la mia sgradevole e vergognosa persona.

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