EPILOGO

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Persino quando non c'era, Sherlock riusciva a rovinarle una serata.

Alice era seduta a tavola di fronte a Paul, un uomo di media statura, con occhi e capelli scuri, capace di essere severo con i suoi sottoposti, ma al contempo di essere piacevole con gli altri. Lo aveva conosciuto a Scotland Yard, dove in quel mese aveva già dato una mano a Lestrade. E tra una chiacchiera e l'altra – una pausa caffè in corridoio, una corsa in taxi condivisa, una penna prestata –, Paul le aveva chiesto di vedersi fuori dall'ambiente lavorativo. Lì per lì Alice era rimasta di stucco, non se l'aspettava e soprattutto lui non era esattamente il suo tipo – cosa che non avrebbe detto a Sherlock neanche sotto tortura. Eppure in automatico dalla sua bocca non era uscito un diniego, ma un entusiasta assenso. Forse perché era la cosa più normale che le fosse capitata negli ultimi tre anni, forse perché a lui interessava pur essendo estremamente casual, forse perché per la prima volta poteva essere se stessa con un uomo. Fatto sta che Alice era contenta di quell'appuntamento.

Finché Sherlock non l'aveva fatta andare fuori dai gangheri. Ora, piuttosto che godersi una serata spensierata, non faceva che risentire le parole del detective e si chiedeva perché fosse stato così gratuitamente brutale, quando sapeva che era anche capace di essere gentile.

«Terra chiama Alice!»

Lei sobbalzò e scese dalle nuvole. Erano cinque minuti che fissava il menù senza neanche leggerne una riga.

Paul la guardava con un misto di divertimento e preoccupazione. «Hai qualche grillo per la testa? Si tratta del caso di Lestrade?»

Alice posò il menù. «Scusa» disse senza confermare né smentire. Preferì che pensasse che fosse così senza dover mentire.

«Non preoccuparti, posso capirlo» disse lui. «Quando si segue un caso, è difficile non pensarci costantemente. Si ha come la sensazione che, mettendo in pausa i ragionamenti, si perdesse qualcosa. Ma ti garantisco che a volte al cervello fa bene qualche intervallo.»

Lei gli sorrise. «Sì, hai ragione.»

Eppure il suo, di cervello, sembrava non volerne sapere di fare una pausa. Alice riprese il menù ma, come prima, arrivata alla seconda riga dell'elenco di pietanze, la sua concentrazione deviò verso il detective.

Ripensò a quando era venuto in ospedale la prima volta, portandole la pizza come se le avesse letto nella mente, e la seconda volta, quando aveva svaligiato il forno dei dolciumi e le aveva proposto di trasferirsi a Baker Street. Si era premurato che facesse attenzione durante le missioni e che stesse bene. Era ormai più che certa che le aveva affidato il caso di Suor Elena per aiutarla con i suoi demoni – la sua terapeuta era tutt'ora sbalordita dai suoi progressi – e non perché a lui servisse una mano per risolverlo.

Sherlock Holmes aveva fatto tante cose, ma ogni volta che Alice era certa che tenesse a lei, lui la smentiva facendole delle scenate inaudite. Perché?

Ma soprattutto, perché lei non riusciva ad essere indifferente? Perché il comportamento di Sherlock aveva un simile effetto sul suo umore e perché le importava così tanto ciò che pensasse di lei?

Chiuse gli occhi e poggiò il menù con uno sbuffo.

Paul la osservò. «Tutto okay?»

Non serviva un grande investigatore per capire tutti quei perché, ma Alice ci era appena arrivata, come se la risposta fosse stata scritta in quell'accidenti di menù. La consapevolezza le si era scaraventata addosso con la potenza di un uragano e le aveva annodato lo stomaco e aumentato i battiti cardiaci.

«Non è possibile...» mormorò.

Quella presa di coscienza così improvvisa face luce dentro di lei.

SHERLOCK - Il caso Alice HollandDove le storie prendono vita. Scoprilo ora