⩩ 𝟭𝟮. 𝗵𝗼𝘀𝘁𝗶𝗮𝘀.

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"Allora? Ti va di dirmi che hai?" La ragazza lo guardò tristemente. Avrebbe voluto urlargli addosso piangendo, chiedendogli che cosa ci fosse di sbagliato, in lei, in lui, nella situazione che stavano vivendo.

Ma non ne aveva le forze, e non voleva che lui stesse in ansia per un motivo stupido, e aveva paura della sua reazione.

"Sto bene, tranquilla" sospirò, portandosi il palmo aperto della mano destra sulla fronte.

Era così dolorosamente evidente che non quello non era vero.
Ma se non voleva farsi aiutare, beh, erano cazzi suoi.

Che peccato; lei non avrebbe mai potuto pensare una cosa del genere, e quindi ora si ritrovava sull'orlo delle lacrime perché non riusciva ad aiutarlo, e i ricordi ancora intensi e vividi di quel singolo giorno che avevano passato insieme le infestavano la mente come fantasmi.

Era successo anche una seconda volta, ma lei aveva chiaramente percepito che il ragazzo non era soddisfatto, né tantomeno felice. Era durato poco, poi erano rimasti sdraiati l'uno di fianco all'altra, nudi, senza niente da dirsi. Nel giro di cinque minuti lui aveva preso i suoi vestiti e se n'era andato, lasciandola sola e con il cuore spezzato, anche se non capiva veramente perché.

Era normale, lo sapeva che non sarebbe durato; ma comunque sperava, senza una via di scampo, che le cose sarebbero potute andare diversamente.

Lo amava. 

Ma dopotutto, non erano neanche fidanzati. Insomma – lui stava con un altro.

E non l'aveva lasciato per lei.


Il campanello suonò insistentemente. Albedo si disse che avrebbe dovuto cambiarlo, se fosse rimasto in quell'appartamento.

Sempre più spesso si ritrovava angosciato da dubbi e inquietudini: chissà se avrebbe deciso di fare di quella città la sua nuova casa, permanentemente; ormai erano già passati cinque mesi, settembre era appena iniziato e i giorni che passava spensierati a dipingere insieme a Kaeya e ai suoi amici erano passati, senza ombra di dubbio.
E in più aveva iniziato a nutrire dei dubbi riguardo ai suoi quadri. Certo, ai suoi occhi erano perfetti e lo sarebbero sempre stati, ma aveva paura che qualcuno con poco senso estetico avrebbe potuto metterli in discussione. Ormai era percorso da un brivido di terrore ogni volta che doveva vedersi con Eula.

Ma non c'era tempo per divagare in pensieri del genere; il campanello continuava a suonare.
Comunque, Mona era abituata ad aspettare un po' alla porta, non si sarebbe arrabbiata.

"Arrivo", disse, infilandosi le ciabatte consunte e camminando strisciando i passi fino alla porta.

Non sapeva se era felice di vederla; si sentiva in colpa, a volte, perché non la riusciva a riempire di attenzione come Mona faceva con lui. Semplicemente non se la sentiva, non gli veniva naturale.

Oh, come avrebbe voluto amarla.

Socchiuse la porta, pronto a spalancarla davanti alla ragazza che così tanto gli stava a cuore, ma si bloccò sul posto appena di accorse che la persona davanti a lui non era quella che pensava. 

Vide per la prima volta dopo giorni e giorni la pelle color cioccolato su cui aveva dipinto, gli occhi di colore diverso di cui lui si vergognava, la cascata di capelli nero-blu con ormai qualche centimetro di ricrescita; era Kaeya, naturalmente. 
Ansimava. 

𝐑𝐄𝐐𝐔𝐈𝐄𝐌 ➣ 𝗴𝗲𝗻𝘀𝗵𝗶𝗻 𝗶𝗺𝗽𝗮𝗰𝘁Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora