CAPITOLO UNO - JASMINE

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Quando conosci il dolore da sempre,
l'unico posto sicuro sono le tempeste.

Aprile

Con i sogni chiusi nell'armadio, resto in balìa del tempo che scorre, inarrestabile.
Le giornate, seppur lunghe e stancanti, mi sfrecciano davanti come un treno impazzito, e senza che me ne renda conto, passa un altro anno. Ma io non mi muovo, sfoglio le pagine dei libri di scuola, e riesco solo a contare la quantità di cose da imprimere nella testa, consapevole di non avere altro spazio a disposizione. I pensieri intrusivi si insidiano come le dure ramificazioni di una quercia, contaminando i sensi.

<<Sei una cretina!>>
<<Non sei capace di fare un cazzo.>>
<<Stai zitta.>>
<<Sei solo una bugiarda.>>
<<Fallirai sempre.>>

Chiudo le mani a pugno, colpendo più volte la scrivania, sperando di sovrastare le parole di mia madre che risuonano ancora nella testa. Gli occhi pizzicano e si inumidiscono, mentre mi maledico per essermi persa ancora in uno dei miei soliti, turbolenti ricordi.
<<Jas?>> Mio padre bussa alla porta, per poi affacciarsi e trovarmi sulla sedia di fronte la scrivania.
<<Cos'erano quei botti?>>
<<Niente, scusa, un attacco di rabbia.>> Decreto velocemente, senza voltarmi.
<<Vuoi tornare dalla psicologa? Hai bisogno?>> Apre di qualche centimetro in più la porta per inquadrarmi meglio.
Prendo un sospiro e lo ricaccio fuori malamente. Con difficoltà raccolgo le ultime cime di lucidità che restano, e prendo coraggio per rispondere.
<<No, grazie, sto meglio.>> Mento.
Si richiude la porta alle spalle senza aggiungere un'altra parola. Nascosta nella mia stanza da più o meno quattro ore, mi chiedo quanto dolore possa sopportare una sola persona, con la paura di impazzire, di perdere ancora il controllo e non poter tornare indietro. Paura del tempo.

Vivo con mio padre dal primo liceo. Il mio sogno, da quando i miei si sono separati, è sempre stato quello di trasferirmi da lui. Non che mia madre vivesse lontano dalla casa in cui sono cresciuta, anzi. Tuttavia, il mio cuore ha sempre avuto un battito in più, per lui. Qualche anno fa, potevamo stare insieme soltanto il fine settimana, e solo la piccola me sarebbe in grado di tradurre il dolore che si diramava nelle viscere quando mi accompagnava di nuovo da mio nonno, dove mamma si era sistemata nell'attesa di trasferirsi dal suo nuovo compagno. Mentre mi facevo mangiare dalla disperazione e dal senso di solitudine, passava il tempo e non riuscivo a comprendere la durezza di mia madre anche solo nei suoi sguardi; alternava attimi di calma e dolcezza, a puri e spaventosi momenti di rabbia, frustrazione, urla ed insulti. Non riuscivamo a comunicare in nessun modo, e quando le litigate si facevano più intense, schiaffi violenti, calci sulla schiena, pugni...erano solo un assaggio del terrore che riusciva a dipingermi addosso.
Chiamavo mio padre urlando, nella speranza di un salvataggio improvviso, che potesse riconsegnarmi alla serenità. Ma niente di tutto questo è mai cambiato, finché un giorno lei non mi propose di trasferirci definitivamente in un'altra regione, con Ivan, il suo nuovo amore. Avrei dovuto ricominciare da capo, iniziare una scuola nuova, farmi nuove amicizie. In quel momento, a quattordici anni, implorai mio padre di non lasciarmi andare via. Ricordo il momento in cui eravamo noi tre, nell'ufficio di papà, ed io lo guardavo negli occhi con le lacrime che mi rigavano le guance paonazze, in preda alle suppliche tormentate. Pregandolo di non lasciarmi sola, di non cedere, di combattere per poter essere noi due il quadro vincente. Quando lo guardai in volto, i suoi occhi non erano altro che due fessure, intente a farsi forza per non lasciare spazio alla commozione, dirompendo in una di quelle emozioni rare e distinguibili, che recitano il canto silente dell'amore incondizionato. Adesso mi trovo qui, con lui, e spesso anche sola. È un imprenditore e difficilmente si trova in casa; quando siamo fortunati torna per l'ora di pranzo, e l'unico modo che abbiamo per passare un po' di tempo insieme, è schiacciare un pisolino sul divano l'una accanto all'altro, prima che il lavoro lo chiami ancora. Tuttavia, viviamo i nostri momenti a cena, quando ci riuniamo con la sua nuova fiamma, Vanessa. Un angelo dai capelli neri e gli occhi verde-azzurro.
Quella persona con la quale sono finalmente riuscita ad intravedere lo spiraglio di una salvezza. Da quando ha avuto spazio tra di noi, ci chiudiamo in camera ogni sera, e chiacchieriamo per ore di ragazzi e gossip su chiunque. Nonostante fossi estremamente gelosa di mio padre, a lei era ed è concesso entrare nelle nostre vite, vestita di carezze e discrezione, Vanessa è stata il ponte di arrivo tra la mia felicità e quella di papà.
La comodità di avere un'altra donna in casa che ti spalleggia, è che se combini qualche disastro, hai una chance in più di passarla liscia; sottovalutavo il potere della mediazione, eppure mi ha silentemente tirato fuori da tragedie familiari chissà quante volte.
Purtroppo, quando conosci la sofferenza e continui a starci insieme dai tempi in cui ancora non puoi avere ricordi, ti plasma, ti parla, ti cambia. Sei una sua creazione, e di te rimane solo il corpo nel quale farla restare; niente delle cose meravigliose che accadono nella vita la spodestano dal trono della tua esistenza, nemmeno le persone. L'unico modo che hai per infastidirla è curare te stesso, ma io ho sempre marciato al passo con i guai, sia a scuola che oltre le sue barriere.

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