18. Ashes

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Credo di dovere delle spiegazioni a chiunque sia rimasto; questa storia è rimasta ferma per ben due anni, se ve ne siete dimenticati e siete passati oltre ne avete tutto il diritto, non mi sono comportata nel migliore dei modi nei confronti dei miei personaggi e ne sono perfettamente consapevole. La verità è che per tanto tempo non ho avuto voglia di scriverla, un po' perché i miei interessi sono effettivamente cambiati (sono in fissa con MDZS da più di un anno raga, ho un altarino Wangxian in camera), ma soprattutto perché il mio scrivere questa storia era legato a una persona che non è più nella mia vita e per tanto tempo non ho avuto il coraggio di continuarla.

Perché iniziare di nuovo adesso? Non lo so onestamente, se fossi consapevole dei miei processi mentali probabilmente sarei a un punto migliore della mia vita; so solo che ho riaperto questi file, li ho letti e mi è tornata la voglia di finirla. Quindi a chi è rimasto, a chi è nuovo, a chi ritorna e anche a chi ha giustamente abbandonato: grazie di essere stati con me in sto viaggio.

Non mancano tanti capitoli alla fine, cercherò nel mio piccolo, tra l'università e i tirocini in ospedale, di concluderla nel più breve tempo possibile, questa volta davvero.

Sono le dieci e mezza di sera quando il treno entra nella stazione di Trost, il vento si infila tra le pieghe del suo cappotto come uno spiritello dispettoso intento a fargli gelare perfino le ossa; ma Eren non lo sente, anzi se dovesse essere del tutto onesto è quasi piacevole quel freddo, potrebbe credere ancora di essere vivo. Mentre guarda le lancette dell'orologio della stazione di Trost si rende conto che non ha idea di dove andare, non che avesse davvero pensato a un piano quando si era alzato dalla scrivania di quell'hotel a Marley, si era rivestito in tutta fretta raccattando le sue cose e si era diretto in stazione lasciando solo un post-it sulla scrivania per Reiner.

Ripensare a lui è un pugno in pieno petto, il dolore gli si annoda nei polmoni e gli rende difficile respirare, il dolore fisico che sente per quello che è successo quasi si annulla al rimbombo sordo che fa la sua anima; vorrebbe non pensare, vorrebbe rinchiudere qualsiasi ricordo in un cassetto stretto della sua testa, la moquette rossa della camera, le tende che si muovevano leggere nel vento, la sensazione del legno sulla pelle nuda, la sensazione della pelle di Reiner che faceva a pezzi la sua. Vorrebbe che tutto questo sparisse, che si dissolvesse in un cumulo di cenere insieme al senso di colpa sordo che gli rimbomba nelle orecchie, senso di colpa per non aver ascoltato i suoi genitori, per tutte le bugie che aveva impilato l'una dietro l'altra per quei pochi minuti con una gonna addosso, senso di colpa perché la voce di Levi continua a rimbombargli nelle orecchie e lui vorrebbe tanto avere il potere di materializzare l'altro davanti a sé senza morire dalla vergogna.

È così strano come non ci sia senso di colpa nei confronti di Reiner, come per l'altro non riesca a provare nient'altro che dolore, dolore, dolore e un sentimento ingarbugliato in fondo allo stomaco che non riesce a identificare, pare quasi fatto dello stesso disprezzo che prova ogni giorno verso se stesso; e gli fa quasi paura, come se si fosse d'improvviso perso in quel grumo in cui non riesce a trovare una briciola d'amore per quello che è il suo ragazzo, come se tutto d'un tratto la realtà gli fosse piombata addosso con la lama secca della ghigliottina, svegliandolo da quel lungo sogno in cui aveva creduto davvero che Reiner lo amasse. Guardandosi nel riflesso scuro delle vetrine, la luce dei lampioni che cala dall'alto come su un palcoscenico, non è più tanto di sicuro di quanto sia vero.

Non ha davvero idea di dove stia andando, non sa dove si trova, né se il suo corpo abbia una meta per davvero, forse inconsciamente vuole solo consumarsi fino a diventare nulla; forse solo in quel momento finirebbe di espiare il peccato della sua nascita, di quella vita che dal primo passo l'aveva sempre spinto verso il baratro; è che Eren tutto quello è talmente convinto di meritarselo che neanche si pone la domanda, perché in fondo deve esserci una sorta di contrappasso all'anormalità che rappresenta, ci deve essere qualcosa in grado di ancorarlo con i piedi saldi a terra, di rompere quelle ali steccate che si ritrova, di bloccare quella libertà che ha un sapore così bello ché il frutto del peccato raramente è aspro e finirebbe a dimenticarsene altrimenti. Eppure, pensa, neanche a un mostro come lui dovrebbero accadere cose così orribili in una camera d'albergo, lì dove in mezzo al lusso si è sentito così in trappola da doversi guardare fuori dal corpo per non impazzire; ma, in fondo, non è successo niente di lontano dalla normalità, anche se fa fatica a ricordarselo.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Oct 10 ⏰

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