You are my baby

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Rallentai tutto d'un colpo la velocità della mia corsa non appena intravidi davanti a me il muro beige dell'edificio al quale stavo girando intorno da più di un'ora.
Mi piegai su me stessa, poggiando le mani sulle ginocchia e cercando di regolare il respiro. Ancora con il fiatone, alzai il viso al suono della voce di Jordan.
«Oh, andiamo, erano appena sette minuti di corsa!»
Gli lanciai uno dei miei sguardi assassini che su di lui non avevano effetto e non esitai a replicare.
«Credo che tu abbia mancato di leggere sulla mia cartella clinica il fatto che io non abbia mai fatto sport nella mia vita.» dissi con tono alto per farmi sentire da quei metri di distanza che ci separavano.
Sorrise e abbassò la testa, ancora in cammino per raggiungermi. In pochi secondi ci riuscì, grazie alle falcate che riusciva a compiere con quelli che sarebbero dovuti essere dei normali piedi attaccati a delle normali gambe.
Jordan era un pluripremiato atletico di trentasette anni dimostrante trenta che, dopo un infortunio alla gamba all'incirca un anno prima, era stato mollato a fare il personal trainer per ragazzi con problemi clinici alle spalle come me. Mi era piaciuto sin dal primo momento, visto che eravamo molto simili. Entrambi chiusi in se stessi ma pronti a dare tutti per gli altri, anche se la differenza era che lui non si era arreso dopo una sconfitta che l'aveva costretto a rinunciare a quello che più amava fare nella vita.
«Non ci vuole nessuna medaglia per correre dieci minuti di seguito.»
Strinsi la mascella e repressi la voglia di tirargli un pugno su quella sua bellissima bocca che non faceva altro che stuzzicarmi. I suoi occhi azzurri erano socchiusi per il sole accecante di luglio che faceva luccicare il suo sudore, e i suoi capelli biondo cenere li accarezzavano appena.
Alzai le mani in aria ancora con il cuore accelerato e scossi la testa. «Lo ammetto: non sono per niente allenata, mi arrendo. Volevi sentire questo, no? Ora, ti prego, lasciami andare a casa.»
«Non ci penso proprio, il mio compito è proprio quello di spronarti a fare di più per te stessa.»
«Mi piace chi sono adesso e come sono, d'accordo? Ora posso andare?»
Scosse ancora la testa sorridendo e mi diede le spalle urlando un venti flessioni. Avrei voluto cancellargli quel sorriso dalla faccia.
«Per la cronaca: l'ho letta la tua cartella clinica e diceva che hai praticato pallavolo qualche anno fa.»
Alzai gli occhi al cielo e sbuffai prima di seguirlo davanti la facciata principale della scuola media, dove ci stavamo allenando. A quanto pareva era un amico dell'insegnate donna di educazione fisica di quella scuola (ero più che sicura lei fosse pazza di lui e lui usasse questo a suo favore), che gli aveva gentilmente concesso di tenere i suoi allentamenti in quello spiazzo di terreno abbastanza ampio.
Quando finalmente finii di sottopormi alla tortura indetta da Jordan, potei finalmente ritirarmi nel fantastico spogliatoio di quella scuola, circondata da dodicenni che si preparavano ad una lezione sul saltare una corda a diversi centimetri dal terreno. Beati loro.
Mi preparai alla svelta prima di incamminarmi a piedi con le cuffie nelle orecchie verso l'ospedale.
Ancora con i capelli leggermente umidi sorpassai l'atrio dell'edificio con naturalezza, ormai sapendo che nessun'infermiera o dottore mi avrebbe chiesto niente.
Stanza 107, lessi sulla targhetta in metallo che fissavo ogni giorno per diversi secondi, mai pronta a quello che vi avrei trovato dietro.
Girai la maniglia, ormai con la certezza che a quell'ora della mattina non ci sarebbe stato nessuno; Pattie era a lavoro in Philadelphia e sarebbe tornata nel tardo pomeriggio. Andava avanti così ormai da giorni. Non era riuscita a prendersi più giorni di ferie di quei pochi che le avevano concesso e adesso era costretta a farsi, ogni giorno, un'ora e mezza di macchina per venire a trovare il figlio in ospedale e dormire nella stanza del motel che aveva prenotato settimane fa e che continuava a rinnovare. Jeremy era sceso giù dal Canada senza portare i fratelli di Justin, dicendogli che lo avrebbe riportato da loro molto presto, ma era stato costretto a ritornare dopo appena una settimana per motivi di lavoro.
Ryan era con Giorgia al bar, non riuscendo a sopportare la solitudine dentro a quello che sarebbe dovuto essere un appartamento condiviso col suo migliore amico (e la fidanzata, quando non era a lavoro). Aveva deciso di rimanere da Giorgia fintanto che Justin era in ospedale. E continuava a parlare di quella situazione come se sapesse che quest'ultimo sarebbe uscito da quella stanza d'ospedale nella quale ormai stazionava da settimane, senza vista di miglioramenti. Non che io non ci credessi –o almeno sperassi–, ma se dovevo essere sincera con me stessa, erano passate più di due settimane e mezzo, e se Justin si fosse dovuto riprendere avrebbe dovuto già aver riscontrato dei miglioramenti.
Erano state due fra le settimane più lunghe della mia vita; erano sembrati anni. Anni dai quali non vedevo Ryan, Pattie o i ragazzi.
«Non puoi continuare così.» mi aveva detto Giorgia in tono duro e comprensivo allo stesso tempo.
Abbassai il cappuccio grigio da sopra la mia testa e poggiai lo zaino che portavo in spalla sulla vecchia sedia scucita marrone accanto al letto d'ospedale.
Guardai i tubicini che uscivano da entrambe le sue braccia, quello che usciva dalla sua bocca e quelli attaccati al suo petto con una specie di cerotto. Sentii il fiato mancarmi e come ogni giorno aspettai che passasse quel momento, ricordandomi di lui quando ancora riusciva a respirare senza l'aiuto di una macchina.
Avanzai verso le finestre e le scostai un po', permettendo al sole di accarezzarmi le occhiaie che coloravano la pelle sottostante i miei occhi.
Tornai a sedermi sulla sedia accanto al suo letto e pensai a qualcosa da dire. Non mi era mai piaciuto stare lì, seduta, in silenzio. Era come se Justin fosse anche lui seduto esattamente davanti a me, guardandomi, aspettando che io dicessi qualcosa ed ascoltando. E non volevo pensare al fatto che non fosse così, perché mi si sarebbe chiuso lo stomaco più di quanto già non fosse. Il silenzio era mio nemico.
«Penso che tua madre stia progettando un viaggio per voi due in un posto tranquillo fra i boschi per quando ti risveglierai. E' per questo che sta facendo gli straordinari a lavoro e non vuole assentarsi ancora» Sospirai quando nessuno rispose. «Credo sia un'ottima idea.» Mi strinsi nelle spalle, pensando che Justin rilassato fra la natura sarebbe stata l'idea migliore dopo il rischio di morte per droga.
Chiusi gli occhi e cacciai quel ricordo dalla mia mente.
«Ryan non lo vuole ammettere, ma non credo stia realmente cercando un appartamento per voi due. Non vuole rischiare di dover poi pagare l'affitto da solo.»
Risi, per poi rendermi conto del fatto che quella non era stata una battuta e che la mia risata era stata una risata amara.
Guardai dritta davanti a me, sullo schermo del macchinario legato ai tubi di Justin, rendendomi poi conto che il suo battito cardiaco era più basso rispetto al giorno prima, e così anche la pressione sanguigna.
Chiusi gli occhi e lasciai che una lacrima mi rigasse le guance.
Poi mi alzai di scatto, mi avvicinai a Justin e gli baciai la guancia con delicatezza, soffermandomi sulla sua pelle e accarezzandola con il pollice.
«Domani e dopodomani non verrò perché vado in Philadelphia da Marilyn. La ricoverano domani e starò via per tutto il weekend.»
In una normale conversazione ci sarebbe stata anche una risposta, ma ovviamente non sarebbe arrivata, così mi abbassai per prendere il mio zaino e poi mi voltai per andarmene, sperando che quella non sarebbe stata l'ultima volta che l'avrei visto.

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