Fawn

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14 Gennaio 2014.

Era giorno di visite, e ciò significava che mi sarei ritrovata la fila delle persone che meno volevo vedere in quel momento fuori dalla porta. I miei genitori, Ben e Justin.
In realtà avevo passato ben poco tempo con i due ragazzi, non avendo acconsentito a vederli. C'era stato un giorno in cui avevo rifiutato persino la visita dei miei genitori, uno dei peggiori di quella settimana. Il migliore era stato il Sabato, quando avevano portato Mackenzie. Era arrivata con il suo solito sorriso gigante, un sorriso ignaro di tutto. Un sorriso ancora pieno di speranza, quella che mi era stata distrutta più volte quando le mani di Chaz si erano posate sul mio corpo, o quando rivivevo la scena dell'uscita allo scoperto di Justin... cacciai quei pensieri dalla mia mente e ritornai a concentrarmi sulle chiacchiere di Mar riguardo la colazione di quel giorno.
Sembrava ci avrebbero dato da mangiare la solita fetta con la marmellata, una tazza di succo e una mela, o forse un'arancia... non che mi importasse più di tanto; il fatto era che in quei giorni cercavo di attaccarmi ai dettagli più futili pur di non pensare a ciò che lasciavo fuori di lì.
Al fatto che non ero io a dover stare in un centro per guarire, ci sarebbe dovuto essere Chaz, per guarire dalla sua psicopatia.
Scacciai nuovamente quel pensiero dalla mente e notai che eravamo in fila per la colazione, e che il mio vassoio era pieno di cose che non avrei mangiato volentieri. Ma lo avrei fatto, se volevo uscire da quel posto.
Non appena avrei compiuto diciotto anni a Maggio mi sarei trasferita lontana dai miei genitori, lontana dai ricordi e da tutto ciò che era successo. Dovevo ancora scegliere una meta, ma c'erano così tante scelte, ed ero giovane, potevo girare il mondo se l'avessi voluto. Potevo ricominciare.
Squadrai il contenuto del mio vassoio: un bicchiere di succo, una mela e due fette biscottate con la marmellata. Addentai la mela e ingoiai il saporaccio che invadeva la mia bocca; spostai lo sguardo su Mar e la vidi intenta a finire la seconda fetta di marmellata con la bocca piena della prima, senza fermarsi nemmeno per respirare.
«Va tutto bene?» chiese con espressione confusa e preoccupata. «Sei sbiancata d'un colpo»
La guardai sentendo quel poco cibo che avevo assunto in quei giorni tornarmi su. Non riuscii a rispondere, lasciai scivolare la mela dalla mano e cominciai a camminare fuori dalla mensa sotto gli occhi di tutti –soprattutto degli assistenti , e poi a correre sentendo le grida di Mar seguirmi fino alla porta della mensa; dopodiché l'unico che rumore che attraversò i miei timpani fu la gomma dei miei stivali contro il pavimento.
Provai a ricordare un bagno nelle vicinanze, ma il mio orientamento era stato leggermente distratto in quei giorni, così corsi semplicemente lungo tutto il corridoio finché non intravidi oltre una porta aperta tre figure parlare animatamente.
Quando i loro sguardi incontrarono il mio, quasi le gambe mi cedettero. Fortunatamente una scritta alla mia destra colse la mia attenzione: Bagno delle donne. Entrai di fretta, con un gesto piuttosto veloce aprii e chiusi la porta di uno dei water e mi ci accasciai contro, portando due dita in gola e rigettando il cibo che avevo ingerito.
Era più del solito, non ci ero abituata. Mi sentivo ancora più disgustata da me stessa rispetto alle altre volte, e non avevo idea del perché. Ma era una sensazione orribile.
La porta del bagno si spalancò di colpo e io mi affrettai a chiudere a chiave la serratura di quella in cui mi trovavo.
«Sam! Dove sei?!» la voce di Ben, poi il rumore delle porte degli altri tre water che si aprono e la sua mano che batte sull'ultima.
«Dannazione, è qui dentro». La voce di Justin. Chiusi gli occhi e mi accasciai lungo il muro portando le mani al viso.
Quando li avevo visti lì fuori parlare con un'assistente, i ricordi mi avevano travolto, avevano preso il controllo facendomi crollare, e adesso le lacrime scendevano silenziose sulle mie guance.
«Sam, ti prego, apri questa porta.» chiese Ben più dolcemente di quanto avesse fatto precedentemente. Mi ricordai che una volta mi disse che io ero come un cerbiatto: se gridava e si muoveva con foga mi avrebbe spaventato facendomi scappare, se invece si fosse mosso con grazia e avesse parlato dolcemente sarebbe riuscito ad avvicinarmi.
Mi ricordai anche che io feci finta di offendermi per quella definizione perché mi aveva fatto sembrare un cucciolo, ma non gli dissi mai che mi aveva capita come nessun altro. Che aveva dato un'altra speranza alla vera Samantha.
«Sam, vogliamo solo aiutarti». La voce di Justin quasi mi pregava di aprire quella porta.
Per sapere se sto bene, pensai. Sperai.
Quando la porta del servizio si aprì una seconda volta fecero irruzione due uomini: imposero a Ben e Justin di lasciare l'istituto e a loro non rimase che ribattere un paio di volte prima di venir praticamente trascinati fuori.
«Sam, ti voglio bene, non dimenticarlo!» gridò Ben mentre veniva trascinato via e la porta si chiudeva dietro di lui.
Riaprii gli occhi quando mi resi conto di averli chiusi e mi alzai dalle mattonelle fredde. Le ossa cominciavano a farmi male con ogni più semplice movimento, e ogni volta che mi sedevo per dieci minuti e poi mi rialzavo sembrava fossi stata ferma per anni.
Quando mi rialzai dal pavimento del bagno poggiai prontamente una mano sul muro cercando di fermare la testa dal far girare la stanza.
Adesso il mio stomaco era vuoto, il corpo mi doleva per la posizione scomoda che aveva assunto e il viso era gonfio per le lacrime che erano scese.
Mi sciacquai il viso più volte con acqua fredda finché il colorito delle mie guance non divenne che un rosa leggermente acceso; poi la porta si aprì di colpo e dentro il bagno entrò una Marissa piuttosto allarmata e sollevata allo stesso tempo.
«Finalmente ti ho trovata... stai bene?» chiese avvicinandosi. Presi un bel respiro e parlai con più disinvoltura di quanta mi aspettassi.
«Ancora devo abituarmi a questa cosa dei tre pasti obbligatori al giorno.» sorrisi come se qualcuno avesse appena raccontato una barzelletta e sbattei le palpebre più volte per cancellare le tracce di un pianto dal viso.
«Oh, per fortuna» sospirò e mi prese sotto braccio, «Ora credo che dobbiamo andare. E' meglio che ti abbia trovata io piuttosto che quelle assistenti, ma vorranno comunque sapere dove sei andata e come stai.»
Non ebbi il tempo di annuire che la ragazza dai capelli corvini mi trascinò energicamente fuori dalla porta.

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