Pure

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29 Gennaio 2014.
Erano ormai tre settimane che ero lì dentro.
Meno di sessantadue giorni e sarei uscita da quel posto.
Ovviamente se avessi passato i test di controllo finali. Tutto ciò che sapevo era che in quelle tre settimane ero ingrassata poco più di un chilo. Vedevo ogni volta il numero 42 oscillare sulla bilancia e ogni volta non sapevo dire se saperlo mi rendeva più depressa o sollevata. Depressa perché, a quanto pare, mi avevano riscontrato anche quello. Sollevata perché, se avessi preso almeno cinque chili sarei potuta tornare dai miei genitori, o perlomeno uscire di lì.
Quando questi ultimi avevano saputo che il mio peso era aumentato avevano fatto i salti di gioia, anche se sapevo che dentro di loro mi pregavano di fare di più, si aspettavano un risultato migliore, come se si trattasse di una gara a premi. Dovevo vincere.
Solo che non era così semplice; le mie calorie quotidiane erano cominciate oscillando intorno alle 1400/1600 e adesso erano diventate 1800. E ogni volta mi sentivo peggio del pasto precedente.
Era come scavare una fossa pensando di trovare un tesoro e invece trovare un cadavere.
Pensi di sentirti meglio ad uscire da quella malattia, dall'essere tanto imperfetta, ma la verità è che più accumuli, peggio ti senti.
Cercavo di evitare, ogni volta che tornavo in camera dopo un controllo, di parlarne con Marissa, cambiavo discorso, evitavo gli specchi e mangiavo prima di tutti per non distrarmi guardando gli altri e finire come l'ultima volta.
Sembrava che cadessi sempre di più in un abisso.
Come sarei guarita se mi sentivo ancora più "grassa" di prima? Dicevano che in parte era una questione psicologica e che quindi se non lo avessi voluto non sarei mai guarita del tutto.
Avrei potuto ingerire quante calorie volevo, ma il mio corpo, la mia mente, me le avrebbero sempre fatte espellere, anche una volta uscita da lì.
Con i miei genitori le cose non miglioravano: Mackenzie veniva una volta alla settimana, il sabato, perché aveva scuola, dicevano i miei. La verità è che non volevano farmi vedere in quello stato e farle porre troppe domande senza una risposta, oppure con una troppo complicata. Come biasimarli: se facevamo una passeggiata nei giardini mi dovevo sedere ogni quindici minuti, altrimenti le gambe mi avrebbero ceduto, le vene erano come fiumi inquinati visibili agli occhi, e la mia caviglia poteva essere racchiusa in una mano.
Era anormale per una bambina, anche per mia sorella. Dovevo pensare a lei, e non volevo che lei vivesse neanche in terza persona quello che stavo vivendo io.
Così non mi rimase che l'ultima opzione.
«Allora, cosa ti danno stasera per cena? Se è una minestra come l'altra sera dimmelo e ti porto una fetta di torta dalla festa di Lizzie.» scherzò Ben, chiudendo la porta della mia stanza dietro di lui. Marissa aveva ricevuto la visita dei suoi genitori quella sera e così aveva lasciato immediatamente la stanza per passare più tempo possibile con loro. Potevo immaginare come avrebbe fatto finta che non le importasse nulla durante la prima ora mentre dentro bruciava la voglia di parlargli riguardo tutto ciò che era successo in quei mesi, di quanto si era impegnata e stesse riuscendo nel suo obbiettivo, di quanto gli mancassero.
Conoscevo la sensazione.
Ero seduta sul letto a gambe incrociate, la testa poggiata all'indietro contro il muro con stanchezza. Ben mi guardava con misto di rancore e tristezza e io non sarei certa andata da lui per consolarlo.
«Sam, mi dispiace da morire»
«Lo so» risposi prontamente.
Lo aveva detto almeno cento volte da quando lo avevo visto la prima volta, circa cinque giorni prima. Ma anche lui sapeva che le cose non sarebbero tornate come prima, almeno non subito.
Il pensiero che se ne sarebbe potuto andare era ancora fresco nella mia mente e avevo bisogno di una figura stabile, quella che appena un anno prima pensavo fosse lui.
«Ma non stavo pensando a quello,» lo rassicurai con tono calmo alzandomi dal letto e rivolgendogli un sorriso forzato. «Mi hai spiegato come sono andate le cose...»
«E so che non basta.» confermò i miei pensieri lui. «E non merito di essere ancora tuo amico, di stare qui con te, ma sono un tale egoista, e tu lo sai. Lo sai meglio di chiunque altro.»
«Sì, lo so e non devi dire queste cose. Ti ho già perdonato, ma non posso, non riesco a dimenticare. Ho paura, come non ne ho mai avuta, che tu possa andartene di nuovo e possa lasciarmi a combattere da sola una battaglia che solo tu puoi aiutarmi a vincere.»
Mi guardò senza dire nulla per istanti che sembrarono ore e, per la prima volta in quei giorni che lo avevo rivisto, ero riuscita a scorgere una scintilla, la solita scintilla superba e giocosa che scorgevo da lontano quando stava con Lizzie o con i suoi amici. Che l'avesse anche con me e non l'avevo mai notata? Pensarlo mi fece l'effetto contrario dell'essere arrabbiata con lui, mi riempì il cuore, tutto il resto scomparve.
Probabilmente anche lui aveva intravisto una punta di speranza nei miei occhi. Perché la verità e che a me mancava da morire, e ciò che avevo detto era vero: quella battaglia potevamo vincerla solo se eravamo entrambi a lottare.
Si avvicinò a me, posò delicatamente la sua fronte sulla mia, come se avesse paura di farmi male, e non lo respinsi. Chiusi gli occhi, potei sentire il suo respiro caldo sul mio, la sua mano che mi scostava un ciuffo di capelli da davanti al viso a dietro l'orecchio.
Un attimo dopo si stava allontanando con un sorriso malizioso sul volto.
«Allora dimmi, cosa posso fare per te da ex- migliore amico, non-estraneo e neo-conoscente?» chiese scherzando e spingendo le mani nelle tasche dei pantaloni. Si accostò con la schiena al muro dietro di lui e puntò i suoi occhi color caffè nei miei.
Era talmente bello, e lo sapevo. I capelli scuri gli ricadevano pigramente sul viso, a sfiorargli gli occhi, il naso sfociava direttamente sulla sua bellissima bocca carnosa.
L'avevo visto dare prova della sua bellezza senza maglietta, vestito elegante o in costume diverse volte, ma l'unica volta che mi colpì davvero fu ad una festa, mentre ballava su un tavolo, completamente ubriaco e con tutte le ragazze che gli giravano intorno.
Perché, andiamo, Ben era bello da togliere il fiato, ed era sempre stato mio. Ero abituata a vederlo sempre intorno a me, a darlo per scontato, e vederlo con altre ragazze aveva fatto scattare qualcosa dentro di me.
Così, quella sera, nel preciso momento in cui l'avevo visto baciare un'altra ragazza, mi ero precipitata da lui e avevo cominciato a ballare o meglio, strusciarmicontro di lui. Gran parte delle mie azioni erano dettate dall'alcool, credo compreso il bacio piuttosto fugace che venne dopo.
Tutto ciò era successo appena un paio di giorni prima che io e Matt andassimo a letto insieme, e non ne avevamo più parlato, avevamo fatto finta di nulla.
Ripensai alla frase che aveva appena pronunciato e cominciai a ridere per il suo uso delle parole, e lo vidi sciogliere la maschera da duro dopo qualche istante di trattenimento.
Era bellissimo sentirlo ridere, nonostante in quel momento sarei dovuta essere arrabbiata con lui. Non potei evitare di pensare alle conseguenze di quel gesto.
Un attimo dopo scacciai quei pensieri dalla mia mente perché, per la prima volta da giorni, sentivo il cuore farsi più leggero.
Dopo quella serata chiarii ugualmente a Ben che quello scambio di sguardi non significava il ritorno di niente. Più che altro lo dissi a me stessa, che non riuscivo a smettere di pensare al giorno dopo, a quando l'avrei rivisto e avremmo passato un altro pomeriggio insieme.
Diceva che sarebbe venuto il lunedì, mercoledì e sabato poiché gli altri giorni aveva le lezioni di football, o le ripetizioni di francese; ma alcune volte lo avevo visto comparire di martedì pomeriggio o di venerdì sera con qualcosa da leggere nello zaino. Probabilmente voleva dimostrarmi quanto ci tenesse, era fatto così. E dentro di me cominciavo a cedere, a credergli, nonostante la maggior parte del tempo la passassimo uno per conto proprio, a leggere e a scambiarci occhiate ogni tanto, per poi finire a ridere.
E' che era complicato: dentro la mia testa c'era confusione, e non riuscivo a smettere di pensare a tutte le persone che nella mia vita mi avevano ingannata, lasciata e usata.
Eppure lui era speciale, era una di quelle persone che sono speciali e non lo sanno. Che commettono errori proprio perché non sono perfetti e non lo hanno mai ritenuto di se stessi. Quelle persone che nell'esatto momento in cui ammettono un loro errore hanno più perfezione nel corpo di quanto potranno mai anche solo immaginare.

Come previsto, Ben si ripresentò quel martedì pomeriggio alle porte dell'istituto, venendo a farmi visita. Apprezzavo molto ciò che stava facendo per me, e il fatto che mi fosse accanto mi faceva dimenticare anche di Justin, che non era più venuto dal giorno del bagno.
Si era arreso, si era stancato, e sapevo che aveva ragione, ma faceva male comunque.
Ben mi portò fuori in giardino a simulare un pic-nic con le mele della mensa che accumulavo e non mangiavo, cercando di distrarmi e farmi ridere; ci riuscì piuttosto bene.
Solo quando se ne andò mi accorsi di aver mangiato entrambe le mele io, e che lui fosse stato tutto il tempo ad imboccarmi giocosamente per farmi mangiare.
E il mio cuore continuava a ripetermi che se quello non era amore, nessun'altro lo era. E la coscienza continuava a ripetermi che dietro lui si divertiva sparlando di me, perché in fondo io ero sempre una ragazza chiusa in un centro riabilitativo; un peso, in altre parole. Un peso per due persone di mezza età, figuriamoci per un ragazzo di appena diciotto anni.
Non sarebbe durato a lungo con me; si sarebbe stancato, proprio come Justin.
Quella settimana Ben tornò alla clinica solo di venerdì, perché a quanto aveva detto con tono piuttosto serio, c'erano stati dei problemi a casa sua; passammo la serata semplicemente mangiando in silenzio, entrambi sdraiati sul mio letto.
Marissa era stata con noi quella sera e aveva cercato di fare amicizia e scaldare un po' l'atmosfera proponendo giochi come 'Il gioco della bottiglia' o 'Non ho mai' con del semplice succo, ma Ben aveva detto di essere stanco per via degli allenamenti e se n'era andato poco dopo non dimenticandosi il suo 'Ti voglio bene' finale.
Subito dopo che se n'era andato mi ero sentita in colpa perché lui aveva qualche problema e io avevo fatto finta di nulla. Non sapevo come comportarmi.
Lo so, è sciocco, lui era il mio migliore amico! Ma le cose erano cambiate e non volevo che pensasse che fosse tornato tutto alla normalità.
Ma chi volevo prendere in giro. In una settimana Ben mi aveva fatta sentire meglio di quanto i miei genitori avessero fatto in tre. Mi aveva fatto ridere, distrarre dalla situazione in cui mi trovavo, mi aveva fatta sentire normale e importante, mi aveva fatto tornare ai vecchi tempi, e quello significava già tanto per me.
Quando quel lunedì mi pesai ero aumentata di un altro chilo, e tutto solo grazie a Benjamin.
Il mio senso di colpa non fece che aumentare.
«Allora, ho sentito che Ben è venuto a farti visita.» mi sorrise mia nonna, poggiando la tazza di tè sul tavolino.
«Uhm, sì, è venuto un paio di giorni.» svagai prendendo un sorso del liquido bollente nella mia tazza.
«E cosa vi siete detti? Sapevo che non eravate più amici voi due.» indagò la donna che avevo davanti con occhi vispi e curiosi.
«Nonna...» mi lamentai alzando gli occhi al cielo.
«Okay, okay. Non chiedo più nulla.» Fece spallucce, continuando a bere la sua bevanda.
Rimanemmo qualche secondo in silenzio, finché non lo ruppi ripensando alle sue parole.
«Credi che una persona possa essere perdonata per un grande errore commesso?»
Lei esitò un attimo, ragionando sulle parole e sorridendomi premurosamente qualche secondo dopo.
«Ascolta, tesoro: noi esseri umani siamo stati creati con un cervello, un corpo in grado di muoversi, degli organi per respirare ossigeno, e un cuore. Probabilmente il dono più bello che Dio potesse farci. Siamo in grado di provare emozioni, di piangere e sorridere, di piangere e ridere contemporaneamente. Siamo stati dotati di una forza immensa, di tanto amore, talmente tanto da poterlo donare anche a venti, trenta persone contemporaneamente, continuando a pensare a noi stessi. E ci è stato donato il perdono. Probabilmente la forma di umanità più pura che ci possa essere. Sta a te decidere a chi sia giusto donarla.»
Non ricordo precisamente cosa dissi dopo che mia nonna pronunciò quelle parole, ricordo solo che dei brividi percorsero le mie braccia, perché le sue parole erano stato così belle e pure, e importanti.
La cosa che ricordo davvero bene è che quello stesso pomeriggio, quando Ben tornò alla clinica, lo aspettai sulla soglia del mio reparto e gli corsi incontro abbracciandolo non appena lo intravidi. E lui mi strinse a sé, cominciando a piangere, ribattendo quanto gli dispiacesse da morire, e mi toccò zittirlo più volte, per poi sussurrargli: "Benjamin Dawson, sei la persona più pura che io conosca."

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