No crimes.

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La prima esecuzione che vidi fu a tredici anni. L'Eletto era salito al potere da poco, e già stava rivoluzionando tutta la società con le sue leggi assurde e i primi Sensori che cominciavano ad essere impiantati nella gente.

Conoscevo il condannato. Aveva circa sessant'anni, e tre nipoti a carico. Lo ricordo perché un giorno mi vide sul ciglio della strada, seduto al marciapiede, e si avvicinò incuriosito. Era uno di quei periodi in cui i soldi scarseggiavano, e per cena c'era soltanto un po' di pane duro e un bicchiere d'acqua. Me ne stavo lì, con lo stomaco che brontolava, e immaginavo i miei compagni di scuola che invece erano nelle loro case a ingozzarsi di cibo che noi non avremmo mai potuto permetterci, almeno fino a quando non avessi abbandonato la scuola e avessi cominciato a lavorare, il che feci proprio un anno dopo.

L'uomo mi si avvicinò e mi chiese cosa avevo, e io gli dissi che avevo fame, e che mamma non lo dava a vedere ma anche lei aveva fame, e lui ci invitò a casa sua e ci fece sedere alla sua tavola. Ricordo i suoi tre nipoti, piccoli, affamati come noi, ma lui non esitò a dividere il cibo con me e mia madre.

Non lo rividi più, fino a quel giorno.

Si era rifiutato di farsi impiantare il Sensore e di sottostare alle leggi del Decreto, ed era scappato in casa con il nipotino di due anni tra le braccia, disperato. I Vigilanti lo avevano inseguito fino al nostro quartiere, e ricordo me e mia madre che sbirciavamo dallo spioncino della porta, come tutti i vicini, senza il coraggio di mettere un piede all'esterno.

I Vigilanti lo accerchiarono e gli tolsero a forza il bimbo, portandoselo via. Lui cadde in ginocchio e implorò pietà. Diceva che non avevano da mangiare, che i suoi nipoti senza di lui sarebbero morti di fame, che non avevano nessuno al mondo, che qualcuno per favore qualcuno li prenda con sé e li accudisca fin quando non torno, per favore uscite fuori lo so che siete lì.

E nessuno osava aprire la porta.

Nemmeno noi. Mamma chiuse gli occhi, io rimasi a guardare.

Un'ora dopo ci eravamo radunati tutti in strada per l'esecuzione, con le teste rivolte verso l'alto per guardare il maxischermo. Lui era lì, sudato, le mani legate, e piangeva ancora. Chiedeva di poter vedere un'ultima volta i propri nipoti. Chiedeva che non gli fosse fatto loro del male. Chiedeva tante cose, ma a un certo punto silenziarono l'audio e quando accadde, non sentimmo nemmeno lo sparo.

Puff. Finito.

Ricordo che c'era tanto sangue. I bambini in strada piangevano aggrappati al petto delle madri. Mamma se ne stava lì, immobile, e io me ne stavo lì, immobile, e anche allora nessuno osò fare nulla.

Ora la situazione è diversa, ma in un certo senso è esattamente la stessa, perché Jamia è davanti a me legata ad una sedia e io me ne sto qui, immobile, e non posso fare nulla neanche adesso.

Deglutisco un paio di volte, ingoiando il groppo di bile amara che mi si è formato in gola.

Donald se ne sta sulla soglia, appoggiato allo stipite, e sorride appena. Il bastardo sta sorridendo.

Dio, io l'ammazzo. Io giuro che l'ammazzo.

-Jamia... - sussurro con voce spezzata, ma lei non mi sta guardando più ormai. Ha gli occhi fissi sul pavimento, le lacrime che le rigano le guance sporche, i capelli sul volto, il corpo piegato dalla disperazione.

Guardo Donald. –Che cosa ha fatto? – ho il coraggio di chiedere, sperando che la voce non mi tremi ancora.

-Lo saprai presto. - L'Eletto fa un cenno ad uno dei due Vigilanti presenti nella stanza, che fa un passo avanti fino a posizionarsi alla destra di Jamia, e tira fuori la pistola.

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