Tre volte la luna si era alzata ad accompagnare i suoi passi e tre volte si era spenta tra la spuma del mare, lasciandolo solo, nel buio, vicino alla scogliera.
Era freddo, ma non lo avvertiva.
Rimaneva immobile, totalmente immobile, lo sguardo attento, perso verso l'unica finestra illuminata, quella più alta, sulla torre affacciata sulle onde.
Era sua, ormai aveva deciso. Da lungo tempo, dalla prima volta.
Era sua, lo sapeva. Se poi fosse davvero stata una decisione, se davvero avesse dovuto riflettere, non lo ricordava o non voleva ricordarlo.
Non era necessario, comunque. Era sua.
Da sola, nella stanza più alta della villa di suo padre, ella attendeva; china su un libro, avvolta in una vestaglia di lana morbida, le gambe piegate sotto di sé, ella attendeva.
Attendeva ciò che ogni uomo attende ogni giorno, senza sapere, senza pensare.
L'ultimo respiro, l'ultimo sguardo.
Quello che nessuno potrà mai raccontare, quello che lo accompagnerà per l'eternità, cullando sogni dimenticati, perduti, mai sognati.
Vita che attendeva la morte.
E la morte la osservava, silenziosa, immobile.
Irresoluta e decisa.
Dalla scogliera guardava la luce spegnersi alla finestra, quando ormai la notte sfumava nell'alba.
Spiava il suo volto, apparso per un attimo, proteso a chiudere le persiane; i capelli neri, lunghi, con cui il vento carezzava quella pelle di porcellana, in una danza leggera e disordinata; le mani delicate, diafane nell'ultima oscurità del cielo.
Da lontano osservava ogni gesto, ogni dettaglio di lei.
E tornava al suo oblio. Di nuovo solo.
Un'altra notte, un altro giorno.
Un giorno rubato o regalato. Inutile nell'ineluttabilità della sua decisione.
Ma era bello guardarla. Era bella in ogni respiro.
Il suo sorriso, il sorriso che, senza che ella lo sapesse, aveva decretato il suo destino, molto prima che potesse iniziare a deciderne uno ella stessa.
Il sorriso senza incisivi di una bimba di cinque anni ad uno sconosciuto, una notte, a teatro.
Il loro primo incontro.
Una bimba paffuta, con guance rosee, in braccio a suo padre.
Un uomo alto, pelle pallida e capelli scuri, solitario.
Il suo sguardo si era posato solo un attimo su di lei.
Non chiedeva niente, non aspettava niente, se non, forse, un moto di paura, un timido e rapido ritrarsi.
Forse non l'aveva guardata veramente, i suoi occhi avevano abbracciato lei insieme alla sala, mentre scrutava la vita che lo circondava, chiassosa e calda, nel suo silenzio di ghiaccio.
Un sorriso, una scintilla di calore più intenso, spontaneo, una dolcezza dolorosa.
E catene che avevano bloccato il suo sguardo e la sua mente.
Un attimo.
Un unico momento e durante quella lunga sera più volte era tornato ad osservarla.
Ella non aveva più guardato verso di lui.
Rideva alle carezze del padre, osservava rapita i ballerini piroettare sul palco, sotto di lei, battendo festosa le mani in una gioia innocente, cristallina.
Vivian.
Il nome di quel sorriso.
Vivian, la figlia secondogenita e amatissima del conte De Chevalier, stimato uomo di corte, integerrimo marito, mecenate e generoso benefattore.
Anno dopo anno era tornato ad osservarla, nell'ombra, vegliandola.
La decisione sempre più forte, il desiderio sempre più intenso, soffocato dalla consapevolezza che un tale desiderio non potesse esistere.
Era sua e non voleva sciuparla.
Perché la vita traboccava da lei come acqua da una sorgente, perché gli anni non avevano gravato il suo sorriso, perché l'azzurro intenso dei suoi occhi brillava di una luce che la morte aveva paura di spegnere.
La morte si affrettava verso di lei.
La morte avrebbe messo alla prova la vita. Come doveva essere. Come decretato dal destino e dall'uomo.
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Di luce e d'ombra
FantasyQuando il buio viene dimenticato, quando può trarre forza e nutrimento da ciò che dovrebbe essere la luce stessa, un'antica leggenda cessa di essere tale e si trasforma in storia. In un regno dove antichi Nomi scelgono individui speciali per special...