Capitolo 8 - Il Matto

4 0 0
                                    

"Matto, sei qui?"

"Sì, Vostra Maestà."

La stanza era fredda e spoglia, illuminata solo dalla luce sottile di quattro candele, disposte agli angoli di un robusto tavolo di noce, nel centro esatto della sala, su un tappeto consunto, dai colori tetri e dal disegno ormai incomprensibile.

L'Imperatore odiava recarsi laggiù. Dall'alto soffitto a volta cadevano, ritmiche, gocce sottili di umidità, nere come lacrime di sangue. Tra le ragnatele, insetti di ogni specie si dibattevano negli ultimi spasmi della morte. Il silenzio era pesante e minaccioso, ma da tempo il monarca aveva imparato a non dar peso a certe futili sensazioni, in nome di un bene più grande: il suo.

"Esci dall'ombra, mio suddito."

"Come Vostra Maestà mi comanda."

La forma rattrappita e contorta di un uomo scivolò fuori dall'oscurità, con passo malfermo, ma felpato. Un pesante cappuccio celava i lineamenti deformi del volto, con la pelle gialla e marcescente, la bocca raggrinzita sulle gengive, il naso troppo grande, simile al becco di un rapace. L'Imperatore aveva da tempo ordinato che egli non osasse mai mostrare il volto in sua presenza, poiché bastava già quell'aspetto grottesco ad offenderne gli occhi.

Gonfio di tracotanza, non aveva pensato che, in questo modo, si era stupidamente privato anche della possibilità di osservare i suoi occhi e, quindi, la sua anima.

Mentre lo guardava arrancare lungo la stanza, non notò, infatti, il ghigno soddisfatto sulle sue labbra, né l'espressione di scherno con cui gli si parò davanti.

"Come può la mia inutile vita compiacere il mio padrone?" la voce era sibilante, del tutto sottomessa e grondante umiltà.

"Oggi non mi occorre la tua arte funesta. Devo soltanto far pervenire un messaggio al Mago, in modo rapido e discreto."

"Ditemi il messaggio, in modo che possa umilmente servirvi."

"Voglio che venga cancellata quella vecchia leggenda sulle notti senza luna.Sono solo sciocche superstizioni, ridicole. Il fatto stesso che in parte del mio dominio qualcuno possa ancora crogiolarsi in tali superstizioni è un'offesa al progresso e al buon senso."

Il Matto si inchinò, per quanto il suo corpo deforme glielo permettesse, evitando di sottolineare l'insensatezza di tale affermazione, soprattutto se a pronunciarla era un uomo che ben conosceva l'esistenza delle arti oscure e che non si era fatto scrupoli a sfruttarle, attraverso di lui, per consolidare il suo potere.

Da anni abitava nelle segrete del castello e, per quanto bramasse di tornare agli oscuri splendori della sua Casa, accettava di continuare quella farsa, di mostrarsi debole e adulante, poiché quello era il compito affidatogli dall'Appeso e che avrebbe eseguito docilmente, per raggiungere i propri scopi.

"Deve pervenirgli stanotte. So che gli accademici si sono riuniti, così potrà dare l'annuncio una sola volta e saranno loro stessi, tornando alle loro dimore, a diffonderlo, coi fatti e con le parole."

"Ma come potete essere certo che il Mago accetterà di eseguire il vostro ordine?"

"Nessuno trasgredisce un mio ordine, insignificante e indegno topo di fogna" ringhiò l'Imperatore, alzando una mano per colpirlo, mentre il servo si ritraeva, strillando, con aria terrorizzata e patetica.

"Non ti colpirò, non temere" solo un attimo e la voce era tornata distaccata e regale. 

"Hai davvero paura di me? Non devi. Non ti hoforse sempre protetto? Ti ho nascosto alla Chiesa, ti ho accolto nella mia casa come un figlio. Ti ho riconosciuto un Nome. Ma non devi interessarti di questioni che non ti riguardano, né fare domande. Né devi mai mettere in dubbio le mie parole o la mia autorità. E' chiaro, questo?"

Il Matto si affrettò ad annuire, le mani tremanti e la bocca contorta in un sorriso cattivo.

Ormai da qualche tempo l'Imperatore non cercava più di mantenere, coi servitori, quella maschera di gentile e paterna autorevolezza che sfoggiava coi nobili e col popolo. Probabilmente era convinto che non fosse più necessario sprecare tempo ed energie ad ingannare quelli che, ai suoi occhi, apparivano poco più di bestie, da sfruttare e dimenticare.

Il Matto, però, non era un semplice sguattero, uno schiavo da far saltare con uno schiocco di frusta, ma, evidentemente, l'illustre Imperatore l'aveva dimenticato. O forse preferiva ignorare il potere implicito nel Nome che aveva saputo vedere in lui, il potere che ricercava bramoso, nel momento del bisogno, e che preferiva soffocare, l'istante successivo.

Capricci degli uomini, tanto più grandi, quanto più forte era la loro posizione. Al Matto poco importava.

Si chiedeva solo quanto tempo sarebbe passato, ancora, prima che il popolo fosse costretto a guardare oltre l'inganno, svegliandosi da quel sonno stregato, e che cosa avrebbe fatto, allora, trovandosi improvvisamente in catene.

Ascoltò i passi pesanti allontanarsi, la porta del corridoio sbattere e si accasciò contro il tavolo solo quando fu sicuro che non avrebb ericevuto ulteriori visite.

Il dolore era qualcosa con cui ormai aveva imparato a convivere. Non ricordava neanche l'ultimo istante in cui avesse potuto guardare il volto di qualcuno senza essere costretto ad una dolorosa ed umiliante torsione del busto, o avesse potuto sostenersi sulle gambe, senza provare un dolore sordo e straziante in tutto il corpo.

La sua esistenza adesso era fatta di ombre. E nel buio vagavano gli incubi.

Si avvicinò al foglio di pergamena, incidendosi una vena del polso con la punta affilata di una penna di vetro nero. Il messaggio avrebbe raggiunto il destinatario in un attimo, invadendo la sua mente, come un fiume in piena di parole impossibili da arginare.

Poi, con cura, scrisse un altro biglietto, alla maniera degli umani. Dai denti contorti uscì un sordo richiamo e, in pochi minuti, un gatto randagio scivolò sul suo braccio, tuffandosi attraverso il piccolo lucernario della stanza, aspettò paziente che il messaggio venisse legato con un nastro al suo collo, e sparì nella notte.


Di luce e d'ombraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora