10 - Terza regola

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La sveglia sul comodino non suonò, nonostante l'avessi impostata per le otto.

A farmi aprire gli occhi fu qualcuno che stava bussando alla porta. Strinsi i denti, ricordandomi i due ubriachi della sera prima. Erano le undici ed ero ancora a letto, invece di cercarmi un lavoro decente. Le nocche sulla porta erano insistenti, perciò sbuffai ed andai ad aprire, fregandomene di indossare solo una canottiera e dei pantaloncini; nonostante il freddo, il piumone era parecchio caldo.

Davanti a me avrei preferito ci fossero i due della sera prima. Chiusi la porta prima che potesse entrare, ma Alexander mi anticipò e mise un piede ad impedire che riuscissi nel mio intento. Lo fulminai con lo sguardo.

«Regola numero due», disse, fissandomi intensamente. «Mai abbandonare un alleato».

Non sapevo se essere lusingata che mi fosse venuto a cercare, o stizzita da come mi aveva definito. "Alleata". Eppure, che cosa mi aspettavo di più? Forse potevo aspirare ad "amica", ma di certo non mi bastava.

«Fra alleati ci si fida», sussurrai amareggiata, guardando in basso.

«Che intendi?», chiese lui, aprendo completamente la porta ed entrando.

Non riuscivo a guardarlo. Da quanto volevo sbattergli in faccia la mia innocenza? Quante volte aveva dubitato delle mie parole? Sognavo, a volte, di urlargli contro, mentre lui mi guardava sempre più stupito, fino a capire che avevo ragione io, che l'avevo sempre avuta. E dopo tutti quei viaggi mentali, ecco che non riuscivo a non fissare la moquette. E questo dimostrava quanto fossi ancora una ragazzina che giocava a fare l'Imperatrice.

«Gwendolin. Il muffin. Tuo padre», dissi flebilmente, tanto da temere di dover ripetere tutto a voce più alta per farmi sentire da lui.

Mi prese il volto fra le mani, obbligandomi a guardarlo negli occhi, due buchi neri, freddi e caldi allo stesso tempo. «Non me ne frega più niente», mi rivolse lentamente, affinché capissi bene. «Potresti aver ucciso anche mezza Corte, e non mi farebbe cambiare l'opinione che ho su di t...».

Ma lo interruppi. «E questo che significa? Crederesti comunque a delle bugie!», gli urlai contro, sottraendomi alla sua stretta. Perché me ne importava tanto di cosa credesse su di me? Come aveva detto, non avrebbe cambiato nulla.

«E come potrei credere che non sei stata tu, quando dopo le accuse sei scappata da mio padre?», replicò in tono duro.

«E da chi altri sarei potuta andare, quando LE ACCUSE LE HAI FATTE TU!», gridai. Forse stavamo dando spettacolo con i vicini, ma chi se ne fregava di loro!

«Che tu non hai smentito», si stava trattenendo, lo vedevo da come stringeva i pugni.

«È per questo che me ne sono andata», lo indicai, furente. «Lasciami alla mia solitudine».

Non disse nulla, non replicò. Aprì la porta e sparì.

Io crollai sul letto, trasformando la rabbia in lacrime. Maledizione, stava andando tutto così bene! Avevo accantonato i ricordi, stavo ignorando le abitudini quando spunta lui a rovinare ogni cosa!

Restare chiusa in quella stanza non avrebbe fatto che peggiorare il mio umore, per di più c'era ancora il suo profumo di muschio nell'aria. Aprii la finestra e mi andai a fare una doccia, sperando che una volta finita potessi richiudere le imposte: si moriva di freddo.

La doccia non fu il solito rituale rilassante, anzi. Rimuginando sui minuti prima, ero divisa fra tristezza e furia. Mi asciugai alla bell'e meglio, cominciando a sentire i morsi della fame. E della sete di sangue, mannaggia. Cercai di non pensarci, e mi vestii per cercare dove mangiare. Magari cinese. Aprii la porta e mi ritrovai di fronte Alexander.

Deimon 2 - La consorte del DemonioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora