Drei.

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*Consiglio di leggere il capitolo con sottofondo la canzone nei media.*

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Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo.
- cit.

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03 - 02 - 2005, Bethlem Royal Hospital, Londra


«Miss Helbinger, perché non risponde?» Ma era tutto inutile, lei continuava a guardare fuori dalla finestra. Le risate lontane dei bambini, la neve candida, il sole distante ma luminoso: erano elementi futili, ma altrettanto interessanti per Amelia.

Quella seduta stava superando le due ore quotidiane, ma ormai non ne sentiva la pesantezza. Col tempo aveva imparato a non considerare nulla, d'altronde era quello che le avevano detto di fare gli psichiatri; non c'era da stupirsi se Loki non l'aveva riconosciuta nemmeno, e non si riferiva all'aspetto: alla fine Amelia era facilmente riconoscibile grazie ai suoi capelli rosso carota e ai suoi occhi blu. Era passato un anno dall'ultima volta che era stata ad Asgard e sapeva che quell'ultima volta sarebbe stata l'ultima volta in generale.

«Miss Helbinger!» Sussultò sulla poltrona e si voltò verso lo psichiatra che la guardava con fare infastidito. «Se vuole guarire deve rispondere alle mie domande.» Suonava come una minaccia, ma Amelia gli sorrise lievemente e si alzò in piedi.

«Vorrei ritornare in camera mia.»

«Non abbiamo ancora finito, si sieda.» Le ordinò l'uomo calvo, ma lei continuò a fare come se quello le avesse dato il permesso di potersene andare via. «Miss Helbinger!» La chiamò, ma lei era già uscita dalla saletta e si stava avviando verso la numero 12. Ironia della sorte aveva deciso che la sua stanza doveva proprio avere il numero della data in cui era andata per la prima volta ad Asgard, 1 Febbraio, nel lontano 1996.

Asgard, Asgard, Asgard. Non faceva altro che pensare a quel posto.

Loki, Loki, Loki. Non faceva altro che pensare al suo dio alieno.

Gli mancavano, e quel posto in cui l'avevano rinchiusa i suoi genitori pareva ricordarle ancor di più le curve perfette delle colline, il verdeggiare degli infiniti prati su cui aveva corso a perdifiato, il castello d'oro e il sorriso del dio degli inganni.

Chiuse la porta alle sue spalle, scivolò a terra e con gli occhi ricolmi di lacrime osservò i muri bianchi, il soffitto bianco, il pavimento bianco, il letto dalle lenzuola bianche.

Bianco, bianco, bianco.

Era tutto dannatamente bianco.

Si sentiva in carcere, ma cosa aveva fatto di male?

Ma perché si trovava in quel posto?

Iniziò a picchiarsi la testa con i pugni chiusi e a singhiozzare come una bambina, si sfogò facendo attenzione a non farsi sentire, o le avrebbero aumentato la dose di antidepressivi, Amelia odiava quelle pillole che le obbligavano a prendere: la stordivano e la facevano dormire più del dovuto.

Senza rendersene conto si alzò in piedi, si mise a cercare freneticamente qualcosa con cui disegnare, trovò una penna blu e se la fece bastare. Andò verso il muro e poggiando la punta della penna sulla superfice fredda e bianca iniziò a tracciare delle linee.

Continuò a disegnare per tutta la notte, fino a quando l'intero muro non divenne una copia del quadro che c'era in casa sua. Verso le sette di mattina si distese sul letto, addormentandosi stremata.

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