Vier.

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*Consiglio di leggere il capitolo con  sottofondo la canzone nei media.*

  La realtà esiste nella mente umana e non altrove.

                                   - George Orwell

                                                          05-02-2005, Bethlem Royal Hospital, Londra

L'avevano isolata in un'altra stanza, imbottita di psicofarmaci e la liberavano dalla camicia di forza solo tre volte al giorno.

Stava seduta sul pavimento, con la schiena appoggiata al muro. Le pareti e le mattonelle erano rivestite da mattonelle simili a cuscini color panna, nella stanza non vi era nulla di abbastanza duro, sicuramente per evitare che il paziente in isolamento si autoinfliggesse. C'era solamente un orologio, messo così in alto che nemmeno in punta di piedi o saltando lo si poteva raggiungere.

Il tic-tac era l'unica cosa che spezzava il silenzio, ma era diventato così assordante che Amelia avrebbe dato volentieri un rene in cambio di una radio. Erano le dodici in punto e a momenti le infermiere sarebbero venute a liberarla per venti minuti, il tempo calcolato per pranzare e andare in bagno.

Non credeva che queste "pratiche psichiatriche" esistessero ancora, eppure era in isolamento già da due giorni. Tutto perché aveva disegnato quel murales nella parete della sua stanza. Ma non era colpa sua se quel posto dov'era rinchiusa le faceva ricordare ossessivamente Asgard e lui... lui e i suoi occhi di smeraldo.

Lo sognava ogni notte e il giorno lo sentiva sempre accanto a sé, così forte era la sua presenza che a volte Amelia si ritrovava a parlargli ad alta voce, solo che un eco era l'unica risposta che riceveva.

Il rumore delle chiavi inserite dentro la serratura la risvegliò e quattro infermiere, con camice e cappellino bianco, entrarono. Due di loro si occuparono a slacciarle la camicia, le altre le posarono un vassoio sulle ginocchia con sopra il suo pranzo: un brodino giallastro e una bottiglietta d'acqua. Amelia fece una smorfia, non avrebbe mai ingerito quella roba che puzzava di pollo marcio. A lei bastava poter muovere le braccia e il busto senza impedimenti.

«Devi mangiare, o non potrai prendere le medicine.» Prendeva nove psicofarmaci al giorno, tre dopo la colazione, tre dopo il pranzo e tre dopo la cena.

«Non ho fame.» La voce le uscì rauca, in un fieble sussurro.

«Se vuoi uscire dall'isolamento, devi fare quello che ti viene richiesto.» Amelia guardò la donna con uno sguardo inespressivo. Dopo un attimo di silenzio, le rispose:

«Lui verrà.» Nemmeno Amelia comprese il significato di quelle parole fino a quando non lo ripeté di nuovo, con più coscienza. «Lui verrà.»

Le infermiere si guardarono smarrite, mentre lei continuava a dire: «Lui mi porterà via di qui. Lui... lui...» Ma non riuscì a continuare, perché iniziò a tremare. Quando tremò così forte che quasi sobbalzava, rovesciò il suo pranzo nel pavimento a cuscini.

«Lui verrà! Deve venire!» Urlò più forte mentre si alzava in piedi. Due infermiere la bloccarono per le braccia, ma la Amelia era più forte, con poche gomitate se le scrollò di dosso, scappando via dalla stanza. Corse a perdi fiato, imboccò vari corridoi fino a quando raggiunse la sua stanza. Entrò dando un calcio alla porta. Quando fu dentro, Amelia constatò che il murales era stato coperto da una carta parati bianca, ancora fresca, così fresca che c'era un cartellino che ordinava di non toccare.

Si avvicinò all'angolo della parete e strappò via la carta parati in un colpo solo.

Il murales era ancora lì, ricoperto di un sottile strato di colla, ma era ancora perfetto, come una fotografia bianco e nero della bellissima Asgard. Chiuse gli occhi e quelle cascate divennero reali, il castello d'orato splendeva davvero sotto i raggi del sole e la luce degli arcobaleni. Immaginò di correre a perdifiato sui prati, di osservare con sguardo da bambina la flora e la fauna asgardiana. Poi lo vide... Loki. Era davanti a lei e la guardava con un'espressione seria.

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