capitolo 11

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Entrai in casa, completamente fradicia.
"Leah, ti sembra un comportamento corretto?!" Mia madre subito mi assalì, come suo solito fare.
Io non risposi, sorpassandola.
Camminando per strada avevo pensato di parlare con loro di ciò che era successo poco prima, ma se voleva mettere le cose in quella prospettiva beh...
"vieni subito qui, signorina!" Mi gridò dietro, arrabbiata.
Non risposi, salendo gli scalini per andare al piano superiore.
Prima mi sarei allontana da lei, meglio sarebbe stato.
"Leah!"
Una volta in cima alle scale mi voltai.
Mi fissava, arrabbiata e scoinvolta per la mie reazione.
La voce calma e bassa, mentre parlai.
"Ci sono stata per troppo tempo, non trovi?"
"tu-"
"Voglio solo stare sola, lasciami, lasciatemi, per favore" sospirai silenziosamente, poi svoltai l'angolo, sparendo dalla sua vista.
Era così strano, in quel momento.
Non sapevo cosa fare, cosa dire, cosa pensare.
Semplicemente, tutto era troppo incasinato, pure per me.
Lei non era mia madre, ma mi aveva cresciuta, a suo modo, cercando di darmi tutto ciò di cui avrei avuto bisogno.
Lui non era mio padre, ma era sempre stato complice con me, come fa un vero papà con sua figlia, mi ha sempre fatta sentire amata.
"Papà è l'unico che amo" dicevo sempre da piccola.
Ed è vero, loro, nonostante tutto, sono sempre riusciti ad amarmi e a farsi amare.
Ma mi hanno nascosto una cosa troppo grande.
Sapevano sicuramente che prima o poi l'avrei scoperto, perché nascondermelo?
Dicono che le parole possono far male, è vero, ma il silenzio può farne di più, credetemi.
Cosa avrei dovuto fare?
Il mio corpo agì ancora prima che io glielo comandassi, iniziai a correre giù per le scale, come se mancasse del tempo.
Arrivai nel salotto ansimando per la corsa, e li guardai, bloccandomi.
Erano sul divano.
Mia madre tra le sue braccia, singhiozzante.
Mio padre che la stringeva a sé, cercando di tranquilizzarla.
Quando mi bloccai, fui mira della loro attenzione.
I loro occhi lucidi, scoinvolti, mi fissavano, nel silenzio.
E restammo così, immobili, nell'ansia del pensiero che ci divorava.
Fui io la prima a reagire, ma non nel modo in cui avrei voluto.
Afferrai in fretta la giacca dall'appendiabiti, poi la sciarpa, misi il telefono in tasca, e uscii, sbattendo la porta.
Quando vorresti urlare, gridare, amare, ma non riesci...non riesci a scappare da quella maschera, e ti ci nascondi dietro, di nuovo.
Mi sentivo proprio così.
Mi limitavo a nascondermi dietro a un'altra persona, perché no, quella non ero io.
Eppure era così difficile per me, in quel momento, credere come prima.
Quando li vidi piangere, avrei voluto abbracciarli, dir loro che non importava, che erano i miei genitori, che avevano il mio amore.
E il mio amore l'avevano, immagino, ma non erano i miei genitori.
Proprio quando entrai nel parco, il mio telefono iniziò a squillare.
Risposi, senza neanche controllare chi fosse, già lo sapevo.
"Non torno a casa, per favore, lasciatemi in pace" sospirai, allontanando il telefono dal mio orecchio.
Lo stavo quasi per spegnere, quando:
"Leah"
Era la sua voce.
"James..."
"Leah, ti prego, ascoltami, stai-"
"Tu lo sapevi?"
"no, assolutamente no Leah, credimi"
"non è giusto, è dannatamente ingiusto, James" le fredde lacrime iniziarono di nuovo a sfogarsi sul mio viso.
"lo so, Leah, ma sii ragionevole, ti prego"
"mi hanno nascosto la morte di mia madre, James!" Quasi urlai.
Un anziano seduto alzò lo sguardo verso di me mentre gli passavo davanti.
Al diavolo.
"Leah, sei sempre stata paziente, lo so, me lo ricordo, ma stai tranquilla, andrà tutto bene.
Ti capisco, posso capirti, ma so anche che tu puoi capire me.
Quindi ti prego di provare a vedere la faccenda dal loro punto di vista, e dimmi cosa avresti fatto tu"
"io...Non lo so" ammisi, sospirando.
L'avrei detto? Avrei detto una cosa del genere alla persona che più cattura il mio amore? L'avrei detto a mia figlia?
Ero così dannatamente confusa, che avevo davvero perso la ragione.
Perché tutto doveva essere così difficile? Perché semplicemente non potevo essere davvero un'altra persona, con una vita diversa, fuori da questi casini? Perché non possiamo tutti vivere senza il dolore?
Ma su tutti i miei pensieri, le mie idee, poche furono le parole che uscirono dalla mia bocca.
E completamente diverse.
"ho bisogno di averti qui, James" la mia voce flebile, debole.
"anche io, Leah"
"Pensi che prima o poi riusciremo a riunirci tutti?"
"Te lo prometto, piccola"
Piccola.
"non promettere troppo grosso.
Certe promesse sono troppo grandi per essere portate avanti"
"non se diventi più forte ogni giorno, trasportato da ciò che più conta per te"
Annuii con il capo, ricordandomi solo pochi secondi dopo che lui non lo avrebbe visto.
"Hai ragione, immagino"
E il silenzio ci travolse.
Ma non c'era imbarazzo.
Era un silenzio incasinato di idee, comprensione, mancanza...
C'era mancanza, ma c'era un insieme.
"chi te l'ha detto?"
"tua madre è preoccupata"
"mia madre non è mia madre"
"che tu voglia o no, continuerò a chiamarla così, come continuerò a chiamare così anche mia madre"
"va bene"
"mi ha chiamato lei, sono davvero preoccupati per te, Leah.
Torna a casa, e ragiona, ti prego"
"non è facile, James"
"se le cose fossero state tutte facili, non ci conosceremmo neanche"
"non penso di riuscire a tornare a casa ora come ora"
"hai incontrato tuo fratello?"
Tuo fratello.
Ma che diamine.
"sì, l'ho incontrato"
"sai dove abita?"
"Dovrei andare da lui?"
"sì, almeno. Non vogliamo, né io né i tuoi genitori, che tu stia in giro così al freddo e al buio. Loro capiranno, anzi, già lo sanno."
"no, torno a casa" mi sorpresi dalle mie stesse parole.
Come lui.
"Ogni volta sei un uragano...vai, e per qualunque cosa, chiamami"
"sarà fatto" e chiusi la chiamata.

Quando varcai la soglia della porta, in quella volta di troppo in quella giornata, andai direttamente in salotto.
Non c'erano.
Provai a controllare in cucina, ma niente.
Neanche in camera c'erano.
Erano usciti?
"mamma? papà?"
Silenzio.
"papà?" Gridai, salendo le scale.
Okay, ero un po' in panico, ma era normale...no?
"Leah?" Il tono di voce sorpreso quando mi vide, scendendo dalla scala.
"perché in soffitta?" Risposi, incuriosita.
Neanche io capivo il mio umore.
Ero ingiustamente, o forse no, arrabbiata, e triste, ma con un pizzico di...non so che.
Era una forma più semplice di gioia, immagino.
"vieni..." mi invitò a seguirlo, salendo di nuovo la scala.

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