Capitolo 2

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Decidere di ricoverarmi era stata senza alcun dubbio la decisione più sbagliata che avessi mai preso in vita mia. E a provarlo era quel terribile ed interminabile viaggio in macchina.

Erano ore, ormai, che ero rinchiusa in quella scatoletta di metallo e, se non fossimo arrivati da un momento all'altro, sarei potuta impazzire. Mi facevano male le gambe, non mi sentivo più il sedere e i miei genitori mi avevano riempito la testa di informazioni sulla casa di recupero che loro ritenevano dovessi necessariamente sapere, ma che, in realtà, non servivano assolutamente a niente, eccetto che a far aumentare a dismisura la mia voglia di gettarmi dalla macchina in corsa. Poi, come se non bastasse, quel giorno faceva un caldo insopportabile e mi stavo letteralmente squagliando sul sedile.

Ma dov'era l'alcol quando serviva? A casa, ecco dov'era, sul tavolo della cucina, dove mio padre l'aveva riposto, dopo essersi preoccupato di perquisire minuziosamente ogni centimetro delle borse e delle valigie che avevo preparato, e dove, ovviamente, non era di utilità a nessuno. Grazie papà, davvero.

Forse, in realtà, mi aveva fatto un favore, dato che poi avevo scoperto che, una volta arrivata a destinazione, i responsabili del centro mi avrebbero comunque perquisita. In questo modo, almeno, avevo evitato la brutta figura.

«Siamo quasi arrivati, tesoro» mi comunicò mia madre, facendomi tirare un sospiro di sollievo. Finalmente.

Lei, però, interpretò il mio sospiro in maniera diversa, perchè aggiunse «non preoccuparti, Callie, questa è una delle migliori case di recupero del Paese, sarai in buone mani e vedrai che in men che non si dica starai meglio e potrai tornare da noi, a casa.»

Sembrava davvero convinta delle sue parole, ma io non ero così sicura che sarei stata meglio tanto presto, non per la dipendenza, sapevo che quella sarei riuscita a curarla, anche se con molta difficoltà e fatica, ma, piuttosto, per ciò che l'aveva procurata. Quello era il vero mostro da affrontare e non credevo di essere pronta a farlo. Non lo ero mai stata.

Mio padre iniziò a rallentare, fermandosi poi di fronte ad una casa in stile vittoriano, a due piani e con un giardino meraviglioso. Ok, dovevo ammettere che il posto non sembrava male, ma mai giudicare dalle apparenze.

Scesi dalla macchina, ancora intenta ad osservare il capolavoro di edilizia che avevo davanti, mentre mio padre scaricava tutti i miei bagagli, e, quando ebbe terminato, ci dirigemmo verso l'entrata.

Non appena mia madre suonò il campanello, venni sopraffatta dall'ansia. Per la prima volta da quando eravamo partiti, mi resi effettivamente conto che sarei andata a vivere, per un periodo di tempo non specificato, in una casa che non era la mia, con persone che non conoscevo minimanente e che avrebbero potuto odiarmi o, peggio, essere pericolose, senza poter più vedere i miei genitori o i miei amici, senza potermi rifugiare nell'alcol o nelle droghe se la situazione si faceva difficile, anzi, piuttosto, costretta ad affrontare i miei demoni ogni giorno.

Non ce la potevo fare. Dovevo andarmene da lì immediatamente. Forse se mi fossi voltata velocemente e poi avessi iniziato a correre a più non posso sarei riuscita a scappare e non avrei dovuto fronteggiare niente di tutto quello che mi aspettava.

I miei piani di fuga, purtroppo, furono interrotti da una porta che si apriva. Maledizione! Non ero stata abbastanza veloce. Merda, e adesso?

«Voi dovreste essere i Signori Adams, se non sbaglio» disse il ragazzo che ci aveva aperto la porta. Era giovane e aveva l'aria da intellettuale, con i capelli ordinati, due grandi occhiali ad ornargli il volto e - un attimo - era davvero un maglione con i rombi quello che stava indossando?

Non aveva affatto l'aspetto che mi immaginavo dovesse avere un drogato. Ma poi, da che pulpito veniva la predica, anche io ero una drogata. Gesù, ma come ero arrivata a questo punto?

Addicted to you [H.S.]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora