11.

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  Quando quella mattina il telefono iniziò a squillare io ero già sveglia, ancora nel letto, ma già sveglia. Forse anche troppo.

Non avevo chiuso occhio e non perché avessi avuto incubi o non avessi avuto sonno, ma perché l'unica cosa a cui avevo pensato era lui.
Avevo ripensato alle sue labbra che scendevano e baciavano le mie dita, avevo ripensato al suo profumo, ai suoi sospiri vicino al mio orecchio e... alla sua voce roca che mi sussurrava complimenti.
Se cercavo di addormentarmi vedevo i suoi occhi di ghiaccio che mi guardavano, vedevo le sue mani arrivare sul mio corpo, vedevo lui su di me e non c'era visione più bella e più piacevole.
Avrei dovuto pazientare un altro po', ma poi sarebbe stato mio, indiscutibilmente mio.
Sbuffai quando il telefono riprese a squillare, ma questa volta risposi.
«Buongiorno dormigliona, ti va di pranzare con me e andare poi al cinema?»
David...
Già solo sentirlo mi faceva stare meglio.
«Va benissimo» gli dissi mentre mi stiracchiavo nel letto.
«Sei ancora a letto?» mi chiese, ma nella sua voce c'era quel pizzico di eccitazione che bastò per farmi battere forte il cuore e farmi incendiare il bassoventre.
«Sì»
«Dio Emy...» e quel sospiro mi fece capire cosa stesse provando.
Dio David... avrei voluto dirgli, dato che erano notti e notti che mi tormentava in sogno senza mai darmi quello che realmente volevo.
«Cos'hai?» chiesi passando per ingenua.
«Cosa non ho» disse e lo immaginai mentre si passava una mano tra i capelli.
«E' meglio che vada... passo a prenderti per l'una»  e riagganciò.
Decisi così che era il momento di alzarsi. Scoprii il letto e aprii le finestre inspirando l'aria mattutina e Golia mi venne incontro con il guinzaglio in bocca.
«Vuoi fare una passeggiata?» chiesi anche se la risposta del mio cane era ovvia. Che motivo aveva di raggiungermi con il guinzaglio in bocca?
Lui mi guardò con occhi dolci e non seppi resistere, gli dissi di non muoversi e corsi ad infilarmi una tuta, a legarmi i capelli, e ad indossare scarpe ginniche.
«Ok sono pronta!» urlai e dopo aver sistemato il mio cane, uscimmo.


Passammo così la mattinata: correndo e fermandoci solo quando eravamo stanchi, correndo e lasciandoci andare al vento e alla natura.
Quando tornammo a casa, qualche ora dopo, ero zuppa di sudore, Golia era con la lingua di fuori e io con i muscoli che bruciavano. Oltretutto non avevo nemmeno chiuso occhi la notte, che cosa intelligente che avevo fatto andando a correre!
«Ok cucciolo ora tu vai a riposarti e mami va a lavarsi che olezza un pochino!» e correndo andai in camera iniziandomi a spogliare ed infilandomi subito dentro la doccia, perché se la mia sveglia non mentiva mancava un'ora prima che David arrivasse.
La doccia che feci poteva entrare nel Guinness dei record, non avevo fatto in tempo ad entrare che ero uscita, lavata e profumata. Corsi verso la camera mentre mi tenevo l'asciugamano sopra la testa e gocciolando su tutto il parquet in camera.
«Che diavolo mi metto?» gridai isterica, scacciando qualche goccia d'acqua dalla fronte.
Volevo essere elegante ma guardando fuori dalla finestra capii che il tempo non mi permetteva di esserlo, così acciuffai un paio di jeans, un maglioncino fino e delle scarpe di tela. Forse era troppo freddo per delle scarpe di tela, ma non avevo voglia di mettere altro.
Lanciai tutto sul letto e afferrai la biancheria nel cassetto enorme dell' armadio.
Iniziai a vestirmi, anche se con costanza tenevo d'occhio l'ora. Non volevo che David mi dicesse per l'ennesima volta che ero in ritardo, anche se era la verità.
Quando fui pronta, ovvero un'ora e dieci minuti dopo, di David nemmeno l'ombra.
Mi andai a sedere sul letto perché avevo il respiro accelerato per la corsa e l'ansia di essere in ritardo. Presi il telefono e sbloccai lo schermo.
Possibile che non fosse ancora arrivato?
Sbuffai e pensai che forse doveva aver trovato del traffico, che stava arrivando.

Venti minuti dopo io ero ancora nella stessa posizione. Seduta e con le mani sul grembo in attesa di David, che non accennava ad arrivare.
Non sapevo se mi avesse dato buca, e non volevo nemmeno crederci, o se gli fosse successo qualcosa.
In entrambi i casi la soluzione era una: avrei dovuto chiamarlo.
«Sto arrivando, scendi» e riattaccò. Io guardai il cellulare e aggrottai le sopracciglia.
Ma che aveva?
Alzai le spalle e, afferrando un giacchetto e le chiavi di casa, uscii.

Quando fui di sotto lo vidi mentre parlava al telefono e non sembrava affatto tranquillo e calmo. Era... incazzato.
Mi avvicinai e aspettai che finisse di parlare, ma quando lui si accorse di me intrecciò una mano con la mia, anche se continuava a parlare al telefono.
Io mi sentivo un terzo in comodo, sensazione stupida lo so, però il fatto di non averlo mai visto così arrabbiato mi faceva sentire in imbarazzo.
Lui mi attirò più a sé e mi sentii morire quando sentii la sua mano lasciare la mia ed ancorarsi ai miei fianchi. Il mio cuore arrivò in gola e non potei guardarlo in viso, perché se solo lo avessi fatto mi sarei trovata così vicina a lui, così vicina al suo collo, al suo viso che avrei potuto non rispondere di me e fare qualcosa di stupido, ma quello che non misi in conto fu che fu lui ad abbassare il viso verso di me dopo aver chiuso la chiamata facendomi sciogliere grazie al suo respiro fresco che si infrangeva contro le mie labbra. Sentii le sue dita stringermi un fianco e lo vidi sorridermi.
«Ciao» mi disse e c'era dolcezza, ma anche passione in quel ciao. C'era tutta la voglia che avevamo di viverci.
«Ciao» risposi con le guance rosse.
«Allora dove vuoi andare a mangiare?»
Alzai le spalle, perché per me potevamo rimanere così. Alla fame sarei sopravvissuta.
«Al Garfunkel's va bene?»
Annuii e lo sentii riprendermi per mano.
«Scusami per tutto questo ritardo ma come hai visto qualcuno aveva bisogno che io alzassi la voce» disse.
«No tranquillo, io pensavo che ti fosse successo qualcosa» ammisi ed entrai in macchina.
«Avrei dovuto mandarti un messaggio infatti. Scusami»
Lo guardai e gli sorrisi, facendogli capire che non importava, che capitava a tutti insomma di dimenticare di fare alcune cose.
«Quindi sono perdonato?»
«Mmh, vedremo»
«Già, vedremo» disse.


Di ristoranti Garfunkel's Londra ne era piena, ma non capii mai perché lui avesse scelto quello su Oxford Street.
«Entriamo?» mi chiese prendendomi per mano.
«Sì» dissi e lasciai che mi conducesse dentro.
Una ragazza, alta bella e slanciata venne verso di noi, con un menu in mano e gli occhi a cuore di chi ha visto qualcosa di infinitamente bello. Non potevo certo dirmi che quella cosa non mi infastidisse, ma fino a prova contraria io non avevo nessun diritto di sentirmi in quel modo, non ero la sua donna.
Non ancora, ci tenne a precisare la mia mente.
La ragazza continuava a parlare mostrando i tavoli a disposizione, chiedendoci quale preferivamo anche se per me un tavolo valeva l'altro, basta che si mangiava!
Continuavo a guardarmi intorno quando la mano di David fu di nuovo sul mio fianco, stringendolo come a richiamare la mia attenzione.
Mi voltai verso di lui e mi sentii mancare la terra sotto i piedi quando mi prese il mento tra le sue dita, facendo scontrare i nostri nasi, cosa che mandò a fuoco le mie guance ed il mio corpo. Lui sorrise e mi chiese quale tavolo preferissi, tutto questo sotto gli occhi invidiosi della ragazza.
«David per me è uguale» dissi cercando di ignorare quelle pozze di ghiaccio che mi stavano mandando a fuoco. «Basta che si mangi, ho fame» ammisi e lo vidi ridere.
Non sapevo se rimanerci male o essere lusingata per il fatto che riuscivo a farlo ridere.
«Bene, dato che la mia donna non ha preferenze, va bene anche quello» disse indicando un tavolo vicino la vetrata che dava sulla via.
«Come vuole, signore» disse la ragazza e ci fece strada.
«Prego» disse e se ne andò, lasciandoci accomodare.
«L'hai cotta a puntino quella lì» dissi mentre sfogliavo il menu.
«Ti infastidisce la cosa?»
A quella domanda strabuzzai gli occhi e li puntai su di lui, pronto ad incenerirlo.
«No che non mi infastidisce, ma non credo che sia un comportamento corretto se si sta uscendo con un'altra» dissi sistemandomi meglio sulla sedia.
«Ma tu sei mia amica» disse e quella frase mi lasciò senza fiato.
Io... ero sua amica? Non ero altro?
Il mio entusiasmo si spense a quelle parole e sentii come una piccola fitta al centro del petto. Io che avevo pensato a lui come il mio uomo, il mio compagno. Io che avevo sognato il nostro primo bacio, la nostra prima volta e lui che diceva di vedermi come un'amica.
«Ah» dissi e abbassai lo sguardo sul menu, cercando di trovarlo più interessante.
D'un tratto lo sentii ridere rumorosamente e alzai lo sguardo cercando anche di tenere a freno le lacrime.
«Cos'hai da ridere?» chiesi con voce tremante.
Lui si sporse sul tavolo ed afferrò la mia mano, mano che non riuscii a scansare, e se la portò vicino alle labbra.
«Mi hai creduto?»
«Come?»
«Hai creduto davvero a quello che ho detto?»
Annuii e lo sentii mordermi l'indice.
«Piccola combina guai come puoi pensare che ti voglia solo come amica?» disse e lo sentii giocare ancora con la mia mano.
Io lo guardai con una nuova luce negli occhi e scansai la mano dicendogli una sola cosa:
«Stronzo»
«Sei sexy quando sei gelosa» disse e cercai di tirargli un calcio da sotto il tavolo, ma lui bloccò la mia caviglia con la mano e salì più su, accarezzandomi il polpaccio e facendomi rabbrividire.
«Volete ordinare?» e di nuovo la ragazza venne da noi, ma questa volta la ringraziai in un certo senso, perché mi permise di respirare e accantonare la sensazione di calore che avevo provato quando la mano di David mi aveva toccato una gamba.
«Si, due Fish&Chips» disse David anche per me.
«Da bere?»
Lui mi guardò e mi chiese cosa volessi.
«Una Coca-cola»
«Una anche per me allora» disse lui e la donna se ne andò con le nostre ordinazioni.
«Sei una bambina cattiva» mi disse e io aggrottai le sopracciglia.
«Te lo meriti» dissi e mi voltai verso la vetrata.
«Non sono io che cerco le donne, sono loro» disse e quel commento mi fece ingelosire ancor di più. Si, ok, non ammettevo dinanzi a lui che fossi gelosa, ma lo ero. Ed ero gelosa marcia.
«E' un problema tuo, non mio»
Lui sorrise di nuovo e disse qualcosa che mi lasciò senza parole.
«Le altre non le guardo, O'Connor» disse e mi prese una mano.
Dio quella sarebbe stata una lunga giornata, me lo sentivo.


Uscimmo dal Garfunkel's verso le tre e mezza di pomeriggio, con la pancia piena e i capelli che in qualche modo avevano preso l'odore di fritto del ristorante. Il pranzo era iniziato con una battaglia all'ultimo sangue che aveva visto come vincitore sempre lui. Sempre e solo lui.
Non avevo rivelato di essere gelosa, ma i miei comportamenti parlavano da sé e lui l'aveva capito, inoltre incenerire con lo sguardo la cameriera era un giusto modo per fargli capire quanto fossi gelosa. Gli avevo chiesto spiegazioni riguardo la casa in cui viveva, dato che quando l'avevo conosciuto mi aveva detto di volerne una tutta sua, e lui mi aveva spiegato che un suo amico era stato così gentile da prestargliela dato che era fuori per lavoro. E di questo fantomatico amico sapevo solo che era anche lui un modello, ma che in quel periodo era impegnato nelle riprese di un sit-com americana.
«Allora ci facciamo una bella camminata e poi cinema?»
«Ti prego sì! Devo smaltire quello che ho mangiato!» dissi e lo presi per mano trascinandolo per la via.
Camminavamo così per le vie di Londra, mano nella mano, come se fossimo realmente una coppia. Ogni tanto mi fermavo per osservare la vetrina di un negozio e lui sbuffava perché diceva che alla fine le donne erano tutte uguali, ma io gli dicevo di stare zitto perché non era vero.
«Sì che è vero, abbiamo fatto tre passi ma hai visto le vetrine di cinque negozi» disse ridendo e mostrandomi anche quali vetrine avessi visto. Io sbuffai e continuai a camminare lasciandolo solo vicino all'ultimo negozio che, a detta sua, avevo perlustrato attentamente con lo sguardo.
Lui mi raggiunse e mi fermò, facendomi voltare verso di lui.
«Se non vuoi morire di gelosia è meglio che cambiamo strada» mi disse e tutto avrei immaginato meno che quello.
Inarcai un sopracciglio e lo guardai perplessa.
«Che vuoi dire?»
«Quello che ho detto» disse, ma io ormai ero curiosa. Volevo vedere a cosa si riferisse.
«Dato che io non sono gelosa continuiamo su questa strada» dissi, sfidandolo.
«L'hai voluto tu» disse con un sorriso sghembo.
Dopo qualche centinaia di metri capii a cosa si riferisse.
L'insegna di un negozio aveva David come soggetto. Un David seminudo, bagnato e in tutta la sua magnificenza. Deglutii a fatica e notai la marca del negozio.
Quindi l'uomo accanto a me aveva sfilato e posato per Dolce e Gabbana.
Lo guardai e mi sentii andare a fuoco quando lo vidi fissarmi, senza un'espressione divertita in volto, come se stesse aspettando il mio giudizio.
Ero ancora concentrata su di lui quando sentii due ragazze parlottare fra di loro.

«Cosa gli faresti tu a uno così?»
«Lo chiuderei in casa e lo scoperei»
«Complimenti a mamma»
«Hai ragione,  mi sto innamorando di lui»
«La solita. Ma puoi innamorarti di un modello?»
«Ovvio che si! Hai visto cos'ha tra le gambe?»

«Emy...» la sua voce arrivò dritta alle mie orecchie e mi distrasse.
Quando mi voltai vidi che aveva indossato un paio d'occhiali da sole.
«Perché hai messo gli occhiali?» chiesi.
«Non so se hai notato che la gente si ferma qui solo per l'insegna» disse e allora capii. L'attenzione della gente era sulla sua figura e se lo avessero visto lì, fra di loro, avrebbero impiegato poco per riconoscerlo ed importunarlo.
«Allora andiamocene» dissi e lo presi per mano iniziando a correre.
Non nego, nuovamente, che la gelosia non mi abbia accecata prima mentre sentivo le due ragazze parlare e fantasticare su di lui, ma se quello era il suo lavoro non potevo fare scenate di gelosia epocali. Quando ci fermammo io avevo il fiatone e scoppiai a ridere vedendo la faccia sconvolta di David.
«Tu sei pazza» disse iniziando anche lui a ridere.
«Che c'è? Inizi ad essere vecchio per correre?» chiesi stuzzicandolo.
«Questo vecchio qui non sai cosa è in grado di fare e di farti» disse ed io arrossii violentemente, perché troppe notti avevo sognato una scena intima tra me e lui.
Lo sentii avvicinarsi e il mio cuore prese una folle corsa.
«Sei arrossita, cosa sta pensando la tua testolina?»
«A niente» mentii, mentre immaginavo le sue mani ovunque, quelle mani che si posarono sui miei fianchi.
«Avremo tutto il tempo che vuoi per quello» e prendendomi per mano iniziammo di nuovo a camminare, questa volta per raggiungere il cinema.


«David ma non andiamo a fare i biglietti?»
«Li ho presi questa mattina» mi disse porgendoli.
«E che ne sapevi del film che avrei voluto andare a vedere?» chiesi.
«Perché tu vorresti vedere il film in sala?»
Quella domanda mi lasciò fin troppo a bocca aperta. Avevo capito male io o lui stava alludendo ad una pomiciata in pieno cliché americano dentro la sala di un cinema?
«Be' si va per questo al cinema, no?»
Lui rise e mi fece entrare nel cinema. Lo seguii mentre andavamo verso un ragazzo dello Staff che strappava i biglietti all'entrata delle sale e mi sentivo sempre più agitata e in ansia, le battute che continuava a fare mi stordivano ma m'infuocavano anche.
Che qualcuno mi aiuti!
«Vieni» mi disse David mentre continuavo a guardarmi intorno cercando di far smettere al mio cuore di battere così velocemente. Lui mi prese per mano ed entrammo dentro una delle ultime sale, una delle più grandi di tutto il cinema.
«Che posti abbiamo?» chiesi.
«E10 ed E11» mi disse e lo vidi sporgersi per leggere la lettera delle file e lo seguii.
Oltrepassammo quattro file e trovammo la nostra, iniziai a leggere i numeri sui sedili quando vidi David che si era già seduto e si stava togliendo la giacca regalandomi per la seconda volta in giornata quello spettacolo che era il suo fisico.
Frettolosamente lo raggiunsi e solo in quel momento mi accorsi di come la sala fosse vuota.
«Scusa ma che film è?»
Lui prese un biglietto e mi mostrò il titolo del film, titolo che aumentò la mia ansia.

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