Capitolo 8

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Il salotto era sempre stato il suo asso nella manica. Il luogo perfetto quando mancano i tuoi, gli diceva sempre Michael.

In effetti era così, quella sala era stranamente perfetta per passare il tempo con i suoi amici e, soprattutto, per conquistare le ragazze. Il salotto era grande e ordinato, ricordava vagamente le abitazioni delle famiglie americane che si vedevano nei film, data l'ossessione dei suoi genitori per il baseball - c'erano infatti trofei e altre cianfrusaglie simili sulle mensole -, le riviste di fumetti che non sapevano mai se buttare e gli album di musica jazz e rock che piacevano tanto a tutti gli uomini della parentela Hood. La tv a schermo piatto attaccata alla parete stonava con quella familiarità indietro nel tempo, anche se le pile di CD sulle mensole la rendevano parte di quel bizzarro arredamento.

Il divano restava il pezzo forte, nessuna ragazza che avesse frequentato Calum sapeva resistergli. Si sedevano entrambi, a volte bevevano un paio di bicchieri di vodka, e poi facevano del sesso sfrenato senza pudore. C'era qualcosa in quel tessuto morbido che probabilmente attirava gli ormoni femminili. Solo durante il weekend, quando i suoi mancavano e sua sorella andava da Ethan. Finta pelle, forse.

Ora Calum e Joy erano seduti sul divano, un rigoroso metro di distanza fra i due ad accrescere l'imbarazzo. Già, pensava ora tra sé, il divano attira solo le troie.
Joy stava tirando fuori dallo zaino il suo quaderno con gli adesivi a forma di fiori e lui era lì, assorto mentre la guardava sistemarsi i capelli dietro l'orecchio. «Hai trovato qualcosa che possa servirci, Calum?»

Si riprese dai suoi pensieri, deglutendo. «Sì, cioè... credo.»

Lei annuì, gli occhi seri fissi sul quaderno, e lui si sentì un idiota.

«A dire il vero ho trovato qualcosa, insomma, sì. Una frase di un libro che avevo letto tempo fa.»

La ragazza nascose un piccolo ghigno divertito. «Tu leggi?»

«No.» Ridacchiarono entrambi e lui arricciò il naso. «Ho detto tempo fa.»

«Ti hanno costretto?»

«Quasi.»

La biblioteca era vuota. Michael, come del resto tutti gli altri studenti, se n'era andato puntuale al suono della campanella, salutandolo e senza fargli domande sul perché volesse restare del tempo in più in quel luogo impolverato.

La risposta non la sapeva nemmeno lui. Voleva studiare? Continuare il progetto da solo? Mentre ci pensava, stravaccato sulla sedia e con il braccio a reggergli il mento, Calum sperava che Joy entrasse dalla porta della biblioteca. Erano già passate due settimane e non l'aveva vista da nessuna parte. L'immagine di Joy che lo guardava lo fece grugnire. Perché le veniva sempre in mente?

Quando si riprese, si alzò svogliatamente dalla sedia dando un'occhiata alle scritte su ogni scaffale. Giallo, storico, horror, romanzi, letteratura.

Sapeva che la letteratura gli sarebbe servita di più per il progetto, ma non aveva voglia di mettersi a leggere poesie che non avrebbe capito.

Così tornò indietro nello scaffale Romanzi e, del tutto a caso, pescò un libro dalla collezione.

La copertina era bianca, con un titolo che sembrava fare a caso suo. Sfogliò velocemente le pagine solo per il gusto di sentirsi uno studioso, mentre il profumo di polvere e legno si sprigionava nell'aria. Che odore stomachevole, pensò all'inizio, ma poi si dovette ricredere.

Finalmente aveva trovato qualcosa di utile che lo avrebbe reso utile, non gli restava altro che prenderlo in prestito e leggerselo.

Calum si sistemò meglio sul divano, leccandosi le labbra che all'improvviso gli si erano seccate. Sentiva lo sguardo della ragazza su di sé, e all'improvviso aveva paura di sbagliare qualcosa.

Sfogliò di nuovo il libro, stando attento a trovare la pagina su cui aveva lasciato il segno. Una volta trovata, lesse la frase ad alta voce:

«L'amore è una malattia...» La sua voce risuonò leggermente roca. Si schiarì la gola. «Una malattia alla quale non si vuole guarire.»

Richiuse con un suono sordo il libro, lanciando un'occhiata alla sua compagna.

Joy era bianca in volto.

«Tutto bene?»

«Perché me lo chiedi?»

Appoggiò il libro sul divano, indicandosi la faccia. «Sei bianca come un cadavere.»
«Davvero gentile!» rispose l'altra, raccattando un cuscino e lanciandoglielo. Calum poteva afferrarlo in tempo, ma preferì riceverlo in faccia da finto tonto. «Hey!» bifonchiò ridacchiando. «Sicura di stare bene, attentato alla mia faccia a parte?»

Lei fece un sorriso tirato. «In effetti mi manca un po' l'aria.»

«Ti accompagno fuori, ti va?»

«Sì, grazie.»

«Vuoi anche qualcosa da bere?»

«Se... se insisti.»

«Aspettami in veranda, torno subito.»

Mentre Calum andava in cucina, non solo si sentì di nuovo un idiota alle prime armi con le ragazze -cosa del tutto impossibile per lui -, ma aveva anche dimenticato in quale ripiano del frigorifero si trovasse l'acqua. Ultimamente beveva solo birra e vodka, e l'unica acqua che prendeva era a scuola, dal distributore.

Fuori in veranda si stava bene. Era pomeriggio inoltrato, e i raggi del sole battevano più deboli, creando morbide ombre sull'alberello. Calum trovò Joy seduta sullo scalino più alto, quello all'ombra, mentre si stringeva le gambe al petto.

Si sedette accanto a lei, porgendole un bicchiere di acqua pescata dal rubinetto.

«Grazie» si voltò verso di lui afferrando l'oggetto di vetro, per poi tornare a guardare davanti a sé. «Mi dispiace di averti fatto perdere tempo.»

«Tanto non facevo nulla oggi» buttò la sua risposta da spaccone. Il silenzio della compagna gli fece venire un vuoto allo stomaco. «...E comunque non abbiamo perso tempo. Abbiamo ancora un sacco di mesi prima dell'esposizione finale.»

Joy deglutì. Avvicinò il bicchiere freddo alle sue labbra fini e bevve un sorso. Doveva smetterla di guardarla così.

Era una ragazza così silenziosa... si chiedeva se avesse mai frequentato qualcuno. Sembrava troppo riservata e allo stesso tempo davvero particolare. Fragile, eppure molto determinata. Lo aveva intuito quando l'aveva sentita spiegare i temi del romanticismo. Le brillavano sempre gli occhi, come se al posto di spiegare noiose nozioni, Joy stesse parlando della cosa più interessante che fosse mai successa sulla Terra. Come se avesse tenuto davvero a quello che diceva, e ne andasse fiera.

«Pensi che la frase che ho trovato vada bene?» chiese lui.

Joy appoggiò il bicchiere vuoto in un angolo dello scalino. «Di sicuro rispecchia il tema...» borbottò, deglutendo di nuovo. «Non mi piace moltissimo, però.»

Calum mise le mani sulle proprie ginocchia. «Perché?»

«Non mi piace la parola "malattia"» sospirò. «È una parola brutale. Ti si fissa in mente e non smetti di pensarci, fino a quando non diventa un pensiero fisso che ti ammala davvero.»

Lui l'ascoltava in silenzio, provando a concentrarsi su quello che diceva e non sulle sue guance, che si erano leggermente tinte di rosso. O il modo in cui muoveva le labbra quando parlava, quasi a scatti. O agli occhi grigi, illuminati dal riflesso del sole. «Credo che l'amore non sia una malattia. Non è possibile che lo sia. Le malattie fanno stare male, ti distruggono e ti portano alla sofferenza perenne, mentre l'amore in genere è bello. Se l'amore fosse una malattia, allora perché la gente preferirebbe non guarire?»

Dopo aversi sfogata, Joy sbuffò. Rivolse uno sguardo a Calum, alzando gli angoli della bocca in maniera fin troppo schematica.

Lui continuava a fissarla serio, e questo contatto la mise in imbarazzo, tanto che dovette tornare a fissare in vuoto.

«Sei mai stata innamorata nella tua vita?» le chiese lui, all'improvviso.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jun 23, 2016 ⏰

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