Capitolo 1

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Abu Dhabi, 14 novembre 2010
Era ormai notte fonda e il nostro box era l'unico con le luci ancora accese, la musica a tutto volume e il vociare della squadra che ancora festeggiava. Festeggiava il mio titolo mondiale. Io, Luna Cataldi, unica donna in Formula 1, ero Campione del Mondo. Quelle tre parole suonavano ancora strane sulle mie labbra, associate al mio nome. Ci sarebbe voluto tempo perché mi abituassi all'idea di aver finalmente coronato il sogno di quand'ero bambina. Ce l'avevo fatta. Avevo vinto e avevo dimostrato a tutti che essere donna non faceva alcuna differenza.

Eppure non ero felice come avrei dovuto. Mi sentivo vuota, incompleta.

Me ne stavo fuori, nel paddock deserto da ore, con la schiena appoggiata alla parete del nostro box dietro la quale la festa non accennava a finire, con una bottiglia di Martini in mano. Avevo lasciato perdere il bicchiere almeno un'ora fa, e mi sentivo piuttosto ubriaca. Ubriaca ad Abu Dhabi, dove sul podio avevamo festeggiato con una disgustosa bevanda analcolica che sembrava gazzosa troppo zuccherata. Ridicolo, no?

Presi un abbondante sorso di Martini e iniziai a ridere da sola. Ridevo come una pazza, avevo le lacrime agli occhi, e neanche sapevo per cosa. Oh, ero decisamente ubriaca.

-Che c'è di tanto divertente qui fuori?- disse improvvisamente una voce proveniente da un punto imprecisato sopra di me. Era una voce che conoscevo ma che non riuscivo ad associare ad un volto.

-Non lo so- sospirai, asciugandomi gli occhi. L'improvvisa allegria se n'era andata così com'era arrivata.

-Ti fa ridere essere Campione del Mondo?- scherzò la voce. Sollevai la testa e constatai che apparteneva a Daniel Ricciardo, uno dei test driver della Red Bull. Indossava anche lui la maglietta celebrativa con il mio nome scritto a lettere dorate accanto alla dicitura 'World Champion 2010', e aveva una bottiglia di birra in mano, identica alle due -o forse tre- che avevo bevuto prima.

-In effetti sì, la cosa fa abbastanza ridere- biascicai, lasciandomi andare contro la parete alle mie spalle.

Daniel si sedette accanto a me -E posso sapere perché?-.

Girai leggermente la testa per poterlo guardare in faccia. I suoi enormi occhi color cioccolato mi scrutavano curiosi, come se stessimo avendo una normalissima conversazione, come se io non fossi ubriaca fradicia e non alternassi risate isteriche a momenti di disperazione totale.

-Perché ho appena realizzato il mio sogno... Eppure mi sento una merda- scoppiai di nuovo a ridere.

-Forse è l'effetto dell'alcol?- ipotizzò Daniel con un mezzo sorriso, sfilandomi con estrema facilità la bottiglia dalle mani. Protestai e provai a riprenderla, ma riuscii solo a scivolare addosso a lui. Lo sentii ridacchiare.

-Merda, scusa- mi rimisi seduta e sospirai -Comunque no, stavo da schifo anche prima di bere-.

Il volto di Daniel si fece improvvisamente serio -Ne vuoi parlare?- domandò cauto, quasi avesse paura che gli rispondessi male.

Esitai un istante prima di rispondere. Volevo dirgli che non c'era bisogno, che era una cosa passeggera, che magari una volta smaltita la sbornia sarei stata meglio. Incrociai il suo sguardo; quegli occhioni sembravano così comprensivi, sembrava ti invitassero a perderti dentro di loro, lasciando fuori i tuoi problemi.

Forse fu proprio questo aspetto confortante e rassicurante di Daniel, più che l'alcol, che riuscì a farmi uscire dalle labbra con sconcertante naturalezza il motivo del mio malessere, quello che non riuscivo ad ammettere neanche a me stessa fino a qualche minuto fa.

-La mia famiglia non è qui- esordii -Non sono venuti neanche ad una gara. Neanche a Monza-.

Daniel aggrottò le sopracciglia ma non parlò, invitandomi a continuare.

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