Era mattino, un'altra pesante giornata di lavoro attendeva quelle gambe immemori della propria fatica. Tuonò la sveglia, imperterrita, introvabile per quella mano che nel buio sbatteva il suo palmo contro la superficie del comodino: suonava e risuonava, mentre le cose, a poco a poco si lasciavan cadere. Fu il turno di quella cornice tanto cara, un ricordo di giorni felici, raffigurante un vestito bianco e due anime che si congiungevano per la prima volta. Di seguito arrivò un urlo: «Ma porco mondo di merda!»
Si sollevò coi pugni impalati sul letto, iroso, pieno di collera fino alle sopracciglia ed ancora intontito dal brusco risveglio afferrò l'abat-jour. Con pressione notevole, seguita dal gonfiarsi delle vene sulla mano, schiacciò l'interruttore della luce, per potersi finalmente alzare da quel letto sempre più scomodo. Il primo sguardo si fermò sul pavimento. Non poteva credere ai propri occhi. La cornice, di metallo, si era rotta, spezzatasi in tanti piccoli frammenti. Restò impietrito, un attimo, o forse poco più, fino al distendersi di quella fronte, momentaneamente calma, in attesa della tempesta. Dopo aver deglutito quella saliva amara ed aspra del mattino digrignò i denti fino a sentir un casco sulla testa e, con velocità e trascindandosi un lembo del lenzuolo ancora legato alla gamba, scagliò il proprio pugno sul muro. Il tonfo fu incredibilmente rumoroso. Improvvisamente, così come non era mai successo, la parete si ruppe. Egli si fissò la mano, inverosimilmente integra ed indolente, per girare poi la testa verso l'altra parte del letto, dove, appena svegliatasi per via del chiasso, sua moglie lo scrutava sbigottita e preoccupata. Questa corse con le ginocchia lungo il letto, afferrando la mano di lui e, piangendovi sopra, disse: «Oh mio Dio, guarda cosa hai fatto! Dio mio ma sei pazzo?!? Devi andare subito da un medico, quanto sangue, macchierai le lenzuola!»
Lui le rispose arrogante, schiaffando quella mano premurosa: «Ma che cazzo dici??? Non mi sono fatto neanche un graffio...» e spalancando le palpebre, con l'espressione d'un pazzo aggiunse: «Lasciami stare!»
Composto ma pesante e deciso nei passi uscì dalla stanza per correre alla volta del salone, afferrare quella solita camicia da cameriere, infilarsela insieme agli altri quattro stracci consueti ed uscire di casa sbattendo la porta con tutta la forza del suo braccio. Scese le scale entrò in garage. Girò la chiave, entrò dentro il suo pandino, ormai d'epoca, ma questo si rifiutava di partire. Lui, oramai esausto quanto ricolmo, straripante di odio, tirò la sua testa sul volante, gridando: «Perché Signore?!? Perché deve andare così male?!! Che cazzo ho fatto di male nella vita?!?!»
Solo, lontano dallo sguardo di chiunque, scoprì per un attimo sé stesso e, quasi con avidità delle proprie emozioni, cominciò a piangere.
Oramai la tristezza era giunta, come fosse la resa di un guerriero, l'arrivo della disperazione dopo una battaglia. Piovve, fra i suoi occhi azzurri e rossi di stanchezza piovve. Mentre l'animo si sfogava, esplose un dolore incredibilmente grande, senza fine, e quella mano che sembrava essere sana e incorruttibile nonostante la botta inferta al muro cominciò a sanguinare. Il sangue sgorgava d'improvviso, come se scendesse da un tubo rotto. La mano si incurvò da sola, incontrollabile, fino allo spezzarsi di un dito. Una scheggia dell'osso finì addirittura per uscire fuori dalla carne. Allora, le urla di dolore, rimbombarono dentro l'abitacolo: forti, strazianti, avrebbero potuto rompere i vetri. Ma non c'era tempo per lagnarsi o piangersi addosso. Doveva correre in ospedale, subito, o l'avrebbe persa. Nel panico, distrutto da quella pena così vasta tra i nervi e così piccola in una semplice mano, mise in moto miracolosamente e partì, spedito verso il pronto soccorso più vicino. Fece un chilometro in appena due minuti. Troppo lento, purtroppo, ma quella mattina il traffico era soffocante. Cominciò a suonare il clacson ossessivamente, bloccato da quella fila di macchine il cui inizio non poteva scorgersi. Sempre più furioso, batté persino la mano insanguinata contro il volante ma senza avvertire alcun dolore. Aprì di seguito il finestrino, lasciando sporgere la testa e a squarciagola gridò: «Ehi, coglione, ma che cazzo aspetti?!? Vai, muovi quel culo! Tu e quella baldracca che hai a fianco!»
Dall'auto difronte uscì un uomo, alto forse un metro, magro, senza capelli, privo di sopracciglia, con gli occhi scavati dentro al viso e due solchi al posto delle guance. Si avvicinò veloce ma zoppicante e, fermandosi ad un passo dalla sua auto, gli rispose: «Tu, come osi dare del coglione a me???? Vuoi che ti spacchi il cranio eh?! Non vedi che non è colpa mia?!?» E l'altro ribatté: «No, io vedo solo una mezzasega incapace di eseguire un sorpasso!»
Gonfio e forte, con la mano completamente nuova, uscì dall'auto e con l'energia di un leone scagliò il suo pugno contro il corpo dell'omino che aveva davanti. Questi, piccolo e scarno com'era, fermò quel gesto con una mano sola, rispondendogli con un colpo sullo stomaco dieci volte più forte. Lui si piegò, sentendo la sua costola rompersi e la mano tornare a far male. Ma, senza indugiare, non fece altro che mettersi diritto e tentare nuovamente. L'altro però aveva già dato dimostrazione della sua forza. Fermò ancora una volta quel colpo, stavolta con l'avambraccio, e ne lanciò uno in aria, a sua volta, stavolta scalfendo quella mandibola e quell'espressione forte quanto stupida. Lui barcollò, sentendosi quasi svenire per il mal di testa. L'orchestra di dolori era oramai insopportabile ma lui non demorse. Noncurante di tutto quanto fece l'ultimo tentativo, mandando la mano finalmente a segno. Colpì un lato del collo dell'avversario. Il piccolo uomo si dimezzò di altezza, oramai non superava le dimensioni di un lattante e, stremato da quell'unico fragoroso schianto, cadde al suolo senza più muoversi. Lui sorrise per un attimo, finché i suoi occhi non si dovettero fermare ad osservare meglio ciò che si trovava loro davanti. A terra, il piccolo era divenuto un gigante. Alto forse un metro e novanta o forse due, aveva le spalle larghe quanto quelle di un buttafuori di Las Vegas. Lui non capiva più niente, non riusciva a comprendere cosa fosse successo. L'unica cosa della quale lentamente prese coscienza fu di avere una mano oramai impossibilitata a muoversi ed un mal di testa lacerante all'altezza di un orecchio. Tossì appena, ancora fermo a fissare quel corpo immobile, finché dall'auto del povero disgraziato non uscì una donna. Era in lacrime, si gettò addosso al suo uomo disteso per terra ed urlò con quanto fiato avesse in petto, rauca dalle troppe lacrime e dal nodo in gola che portava: «Figlio di puttana, cosa hai fatto al mio Jack!!!» e lasciandosi sprofondare sul viso del povero esanime. Lui, il nostro senza nome, sentendosi in colpa per aver abbattuto quello sconosciuto, si svegliò quasi da un sonno che, chissà da quante ore lo avesse preso, e scappò via, lasciandosi andare a smorfie di dolore. Si precipitò, un po' contorto nella postura, verso il vicolo all'angolo della strada. Corse, corse sempre più stremato, senza fermarsi, senza guardarsi davanti, distratto dal terrore che qualcuno lo potesse inseguire. Perse il fiato di metro in metro fino a sbattere contro un bidone della spazzatura. Inciampò. Cadde, ruotando il corpo sino a trovarsi con gli occhi rivolti verso il cielo. Una nuova botta si aggiunse ai dolori di quella mattinata. Cominciò a vedere le tenebre, la volta offuscarsi, il grigio piombo delle nuvole entrargli negli occhi. Esalò un respiro profondo quanto vuoto, come se la sua anima avesse fame d'aria e perse i sensi.
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L'oasi di rabbia
FantasyL'oasi di rabbia racconta la storia di ognuno di noi in chiave allegorica e fantasiosa. Il protagonista sei tu ed ancora non lo sai. Tante volte ci ritroviamo come persi, distaccati dalla realtà, come in un'oasi, un posto apparentemente privo di spe...