7.

451 76 96
                                    

Erano poche le volte che Will lasciava la sua cella. Quel giorno era una di quelle.

<<Storolow, ci sono visite!>>, urlò James Walden mentre si avvicinava a passi pesanti verso la 155.
Fece seguito il bip metallico e la cella si aprì. Walden lo ammanettò e lo trascinò fuori dal reparto camminando dietro di lui. All'inizio era stato piuttosto strano per Will stare a quelle regole e farsi ammanettare come un criminale, ma sapeva che avrebbe dovuto sopportare quelle condizioni per altri dieci anni. Quindi, ben presto ci fece l'abitudine: ogni volta, appena sentiva i passi dirigersi verso di lui, preparava le braccia all'indietro per abbreviare i tempi.

<<Ehi, bastardo, chi ti è venuto a far visita oggi? Il paparino?!>>, gli sbraitò Maximilian dalla cella 150 allungando le braccia strappando quasi un pezzo della tuta di Will. Seguirono schiamazzi da parte di tutti. Max era stato arrestato per aver sterminato un'intera famiglia il giorno del suo compleanno. Stava dentro da molti anni e probabilmente non sarebbe mai uscito. Will ricordava ancora i telegiornali dell'epoca che mandavano in onda la sua faccia grossa e con un'evidente cicatrice che gli attraversava tutta la guancia sinistra. Fino all'anno della sua cattura, nel 1995, in tutta la Contea di Santa Clara regnava il terrore. Lui non confessò mai. La polizia disse che colpì una famiglia che gli ricordava molto la propria che aveva perso da piccolo.

Ormai Will aveva fatto abitudine anche a quelle voci. Nei suoi otto anni di carcere non socializzò mai con nessuno. Per interi anni rimase in silenzio, rispondendo solamente alle rare domande del personale. Ma sapeva bene di non poter vivere in quelle condizioni. Tutto ciò non gli apparteneva, non era il suo mondo. Lui, un ragazzo solare, pieno di aspirazione, sogni... Lui, chiuso dietro quelle sbarre a diciotto anni, nel momento in cui più aveva bisogno di volare. A fargli compagnia era solo il suo diario. Ma ormai nemmeno più quelle pagine avevano la forza di poter contenere il suo dolore. Anche sulle pareti della sua cella scriveva. Scriveva senza sosta, temendo a volte di impazzire. E se non scriveva, leggeva. Leggeva per evadere. Nel farlo cercava di non stancarsi, perché stancarsi significava aver bisogno di dormire. E per Will dormire equivaleva ad avere incubi: urla disperate, il rumore della pelle contro un'altra pelle... Pluff... Qualcosa di stranamente morbido... Una pozzanghera di sangue nero che si estendeva sempre di più... Sapeva che era arrivato il momento: aveva bisogno di qualcuno. Qualcuno che potesse sentire la sua storia. Qualcuno che condividesse il peso del suo trauma. Così, tre anni prima chiese a Walden di poter parlare con uno psicologo. La cosa non fu affatto facile: venne sottoposto ad infiniti esami, tutti risultanti negativi. Era lucido, in ottima forma. Per mesi continuò a supplicare ogni operatore che entrava nella sua cella di poter parlare con qualcuno.

<<Che c'è che non va?! Di' a me, Storolow!>>, era la risposta che si sentiva dire da tutti. Non capivano. Non capivano che non aveva bisogno semplicemente di quattro chiacchiere. Doveva rendere verbalizzabile tutto ciò che anni prima gli aveva sconvolto la vita. Probabilmente si arresero o capirono la sua reale necessità: dopo aver firmato diversi documenti, Will poté incontrare uno psicoterapeuta, il Dr. Russell.

Lei era già lì, seduta dall'altra parte del vetro con lo sguardo fisso davanti a sé. Lo andava a trovare l'ultimo venerdì di ogni mese. Non ne aveva saltato mai uno, se non fino a due mesi fa. Appena Will arrivò, la vide alzarsi di scatto e portare le mani davanti il volto.

<<Figlio mio, come stai?>>, disse piangendo.

<<Cinque minuti di tempo!>>, pronunciò come da rituale Walden per poi allontanarsi.
 Ma Will e Teresa Storolow non udirono minimamente quelle parole. Erano troppo impegnati a guardarsi negli occhi. La signora Teresa continuava a piangere in silenzio e a sorridere teneramente.

<<Come stai, figliuolo? Hai mangiato? Ti stanno trattando bene?>>

<<Perché non sei venuta, mamma?>>, rispose Will ignorando la domanda. Il suo tono era quasi come un rimprovero, ma traspariva anche molta tristezza.
Teresa continuava a piangere e a non distogliere gli occhi da suo figlio.

<<Lo sai che ho solo te e che vivo ogni giorno contando quanto manca per l'arrivo dell'ultimo venerdì. E' da giugno che non vieni, mamma! Cosa è successo?>>

<<Will, ti chiedo scusa. Non ho potuto. Sai benissimo che anch'io non vedo l'ora di poter passare questi dannati cinque minuti con te. Ma non ho potuto.>>
Will inspirò e, non appena stette per ribattere, venne interrotto: <<Per favore, Will. Il tempo è già poco. Cerchiamo di sfruttarlo al meglio.>> Detto ciò, Teresa appoggiò la mano destra contro il freddo vetro che li divideva.

<<No, mamma. La sinistra. Metti la mano sinistra.>>

Teresa sorrise. Suo figlio non era cambiato affatto. Quante volte le aveva ricordato che preferiva fare i gesti che sentiva davvero, quelli provenienti dal cuore, con le parti sinistre del corpo. La parte sinistra è governata dal nostro emisfero destro, quello emotivo, le ripeteva già da ragazzino.
Misero entrambi la mano sinistra sul vetro e la fecero coincidere perfettamente. Teresa faceva sempre più pressione, quasi a voler distruggere la barriera che la distaziava da suo figlio. Strinse forte i denti e spinse indietro le lacrime.

<<Oh tesoro, quanto mi manchi...>>

<<Due anni. Mancano solo due anni, mamma, e potremo riabbracciarci.>> Will sorrise come sempre per cercare di dare forza anche a sua madre che era sola proprio come lo era lui. Anche per lei quella vita era diventata una prigione.

<<Tempo scaduto. Si torna dentro.>> Walden arrivò preciso come sempre. Sapevano che la guardia non era affatto indulgente, quindi non chiesero alcun favore.

<<Ehi, Will, prima che me ne dimentichi. Ti ho portato questi.>> Teresa lasciò un sacco di tela color terra sul banco e salutò suo figlio mandandogli un bacio.

<<Meno 29, mamma. Ti aspetto qui!>>, Will alzò il braccio all'aria -il braccio sinistro!- e la salutò.

Walden, dopo aver preso il sacco, gli si parò dietro per riportarlo in cella. Il corridoio era vuoto e le vaste mura facevano riecheggiare il rumore delle loro scarpe e il tintinnio delle chiavi della guardia. 

<<Per oggi ho finito. A lunedì, signora Irvy.>>

 Will si voltò di scatto. Una voce femminile nuova, fresca, dolce. Vide da lontano una sagoma. Ne poté scorgere solamente una lunga coda di cavallo. Il suo passo era leggero. Poco dopo quella fanciulla scomparve.

<<Ehi, Storolow, che ti prende?! Guarda avanti, altrimenti rischi di inciampare!>>

<<Chi era quella ragazza?>> Will stesso si sorprese del suo comportamento. Era passivo da tempo a tutto ciò che gli accadeva attorno. Eppure quella voce aveva sfiorato la barriera che si era costruito, fino a trapassarla.

<<Ma chi? Quella ragazzetta? E' la tirocinante>>, affermò Walden con voce sprezzante e stanca.

La 155 si aprì e si richiuse dietro di lui. Will si appoggiò alla brandina e aprì il sacco portato da sua madre. Come sempre, c'erano dei libri che gli avrebbero fatto compagnia per le successive quattro settimane fino al loro prossimo incontro. Iniziò a sfogliare "Dieci piccoli indiani" di Agatha Christie. Lo richiuse e lo appoggiò al suo petto. Poco prima l'aveva toccato sua madre ed era più che sicuro che anche lei aveva fatto quel gesto. Calde, le lacrime gli solcarono il volto.

Lasciami travolgereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora