Josie era a terra, col corpo in preda alle convulsioni. La sua vestaglia bianca stracciata qua e là, che indossava dal primo giorno in cui era stata portata dentro rifiutandosi di mettere l'uniforme, si alzava e si abbassava, seguendo il ritmo dei suoi polmoni e del suo cuore che pompava sempre di più. Le infermiere accorsero subito al suono della sirena e, appena notarono che la cella verso cui era diretto l'allarme era la 153, fecero un gesto in segno di rassegnazione. Ormai tutti conoscevano bene la signora Josie che non perdeva occasione per rivoluzionare l'intero reparto. Erano state lì solamente tre giorni prima. Durante i corsi di formazione a cui erano obbligate a partecipare veniva detto loro che ogni sintomo, ogni azione del detenuto... No no, quello psicologo, il Dottor Russell, usava un altro termine... Acting-out. Sì, pensò l'infermiera Anne sorridendo a sé sbalordita della sua memoria nonostante i 60 anni, lo chiamava proprio acting-out! Ebbene, ogni cosa aveva un significato e una propria storia. Ma Anne stentava a capire quale fosse la ragione del comportamento di Josie. Aveva le ferite ancora fresche su braccia e gambe che si era procurata pochi giorni prima. Ed ora, da quanto ascoltato dal medico di reparto, aveva ingerito il sapone liquido presente nel bagno condiviso con le altre detenute.
<<Sembra che qui ogni norma di sicurezza non sia abbastanza!>>, pronunciò il Dottor Gilbert con voce irritata.
Gli operatori in servizio abbozzarono un cenno col capo, come a mostrare il loro accordo e presa di provvedimenti.
<<Bisogna star loro sempre dietro, anche in bagno. Ci vuole un niente, come la vista del sapone, per far scattare qualcosa in loro. Oggi Josie ha fatto del male a sé, ma chi ci assicura che lei o un altro non possa aggredire un altro detenuto?!>>, continuò il Dottore con la sua voce roca che gli conferiva ancora più autorità. Fecero seguito ancora cenni del capo da parte degli altri.
Queste occasioni nel carcere di Stanford potevano essere paragonate per il loro effetto negli altri agli scandali nei piccoli paesini di provincia. In entrambi i casi, si tratta di qualcosa di brutto, estremamente brutto, che provoca sofferenza a qualcuno; ma d'altra parte, quello scombussolamento, quanto piccolo o grande che sia, è ben accolto in posti dove regna la monotonia. E gli altri, stufi delle loro giornate piatte, si rallegrano col dolore altrui. Quel giorno, infatti, la cella 153 sembrava esser diventata un grande schermo che proiettava chissà quale film interessante: i detenuti dello stesso reparto avevano tutti lasciato la propria brandina per stare vigili e con un sorriso beffardo contro le sbarre, cercando di trovare l'angolazione migliore per vedere l'accaduto o almeno affinare il più possibile il proprio udito per cogliere qualcosa. Una volta tornata la quiete, le voci sarebbero arrivate fino alle ultime celle di quel lungo corridoio. Nella cella 155, a soli pochi metri da quella di Josie, sembrava non esserci alcun movimento. Non era qualcosa di insolito. Ormai tutti sapevano che Will si era lasciato andare: se ne stava rannicchiato con le ginocchia contro il petto e con in mano il suo diario dalle pagine inumidite. Erano ormai otto anni che lo aveva con sé per trascrivere di volta in volta qualcosa. Nessuno sapeva cosa, se non Will stesso. Con il Dottor Russell, lo psicoterapeuta, aveva creato una buona alleanza terapeutica, ma non ancora era riuscito a condividere con lui i suoi pensieri più profondi, quelli incisi sul suo diario. Gli altri detenuti lo deridevano, ma sembrava che Will fosse impermeabile ad ogni stimolo esterno. Si distingueva da quelli presenti in quel reparto, come riteneva qualunque operatore; eppure, per il tipo di crimine commesso, il suo posto doveva ancora per un po' essere quello.
Era passata un'ora abbondante dal suono di quella sirena e Alexis stava ancora appoggiata contro quel freddo muro. Aveva tirato fuori dalla sua borsetta a tracolla le cuffiette, le inserì al cavo del cellulare e, come sempre, toccò il tasto Play della sua canzone preferita. Si lasciò rilassare dalle dolci note di Thinking out loud di Ed Sheeran e la sua mente andò a Matt. Matt, il suo primo ed unico ragazzo. Spesso insieme, accoccolati sul dondolo della veranda di casa sua, avevano condiviso quelle stesse cuffiette per sentire quella canzone. Con le mani intrecciate, avevano lo sguardo perso verso il cielo e di tanto in tanto si voltavano l'uno verso l'altra per rubare un bacio -di solito, questo accadeva durante il ritornello della canzone-.
I suoi pensieri furono bruscamente interrotti dallo sbattere di una porta grigia ed imponente dietro di lei, da cui sembrava uscire un'intera équipe. Sobbalzò di scatto lasciando cadere le cuffiette ora penzolanti dal cellulare e si voltò. Prima non aveva notato quella porta: sembrava segnare un passaggio verso un'altra zona nel penitenziario. Non a caso, su di essa c'era una targa bianca con scritto "Omicidi". La sola scritta le gelò il sangue. Dai, Alexis, ricanticchia dentro di te la canzone e ripensa a Matt. Oppure pensa a mamma, si disse per calmarsi.
<<Salve, lei deve essere la signorina Castle. Non è vero?>> Davanti le si parò un uomo alto e dal corpo esile, con i capelli bianchi arruffati. Indossava un camice anch'esso bianco con degli occhialetti rotondi legati ad una cordicella rossa e cadenti sul petto.
<<Dottor Gilbert, Vincent Gilbert. Piacere.>> Porse la sua mano verso Alexis che con fare imbarazzato ricambiò il saluto.
<<Sono il medico del carcere. La nostra sorvegliante ci ha informati del suo arrivo. Ci scusiamo dell'accoglienza che ha ricevuto oggi, ma qui è un carcere, signorina. Non si troverà più tra i banchi universitari, ma a contatto con persone che finora ha solamente studiato. Ce la farà a resistere a questo ambiente una ragazzina come lei?!>> Le fece l'occhiolino, come per metterla subito alla prova.
Alexis divenne rossa in volto e più cercava di controllarsi più si sentiva avvampare. Perché continuavano a ritenerla una ragazzina?! Aveva ben 24 anni, anzi 25 tra pochi mesi.
Lasciando andare via questi pensieri, strusciò freneticamente le mani sudate sui jeans, deglutì e rispose tutto d'un fiato: <<Piacere mio, Dottor Gilbert. In tutti gli anni di studio non ho desiderato altro che questo momento. Farò del mio meglio.>> Sorrise, ma riconobbe di avere la voce tremante, come le accadeva spesso in situazioni nuove.
Dopo altri convenevoli e dopo averle mostrato per ora solo quel primo piano dell'edificio, il medico si congedò: <<Per oggi può andare. Recupererà questa prima giornata tra due giorni. Arrivederci.>>
Non le diede il tempo di rispondere che era già andato via.
Alexis a passo svelto uscì fuori. Riempì bene i polmoni ed espirò. Era stata lì dentro solo un paio d'ore che le erano sembrate un'eternità ed ora apprezzava poter rivedere la luce del sole e respirare aria fresca. Scosse la testa.
<<Sciocchezze, Alexis!>>, pronunciò ad alta voce, quasi inorridita dal suo pensiero. Chi stava rinchiuso lì da anni, cosa avrebbe dovuto dire?! Non poteva minimamente sapere cosa significasse desiderare di vedere di nuovo il mondo lì fuori. Era una sensazione che mai nemmeno la sua più fervida fantasia le avrebbe permesso di percepire.
Will, al contrario, conosceva bene quel forte desiderio che ardeva in lui: poter riprendere in mano la propria vita. Anzi, cominciare a vivere, cosa che nei suoi 28 anni di vita ancora aveva potuto fare.
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Lasciami travolgere
RomanceLa vita di Alexis ha sempre seguito un ritmo costante: è una brillante studentessa di Psicologia, in procinto di affrontare il tirocinio nella Stanford Prison. Promessa sposa al ricco ingegnere Matt, è convinta di amarlo e di aver trovato chi la com...