Capitolo uno

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Ascolto, quasi assorta, persa nei sui occhi: ghiacciati, fissi a guardarmi con quella disperazione a me ormai conosciuta.

"Lei la ama ancora?" Sento come la mia voce gli arrivi in modo diretto, secco, come desideravo che fosse.

"No." Alza gli occhi verso di me, leccandosi le labbra per poi alzare gli occhi al cielo e sbuffarre. lo faceva spesso, prima che le sue parole si spezzassero a causa dello sfogo, delle lacrime che erodevano la sua anima ormai assente. "Io l'ho amata. L'ho amata, ho amato tutto di lei, della persona che era. Ero innamorato, perso in quei suoi occhi deboli, in quelle dita fini che mi toccavano incerte sul da farsi, per poi lasciarsi andare. Ero follemente caduto nella follia del nostro amore, forse troppo ingenuo che le cose sarebbero potute cedere, prima o poi. Pensavo al viverla, pensavo a godere di lei e di ciò che mi dava, di ciò che potevo darle. Io avrei potuto darle il mondo, sarei capace tutt'ora di darle la luna, il sole e tutto ciò che di splendido esiste, ma non lo faccio, non lo faccio perchè non sono più certo di cosa potrebbe farne."

"Troppe parole." Ridacchio, rendendo quasi superflua la cosa. "Davveero troppe per dirmi di no, Signor Horan."

"Mi stai dicendo che non so ciò che dico?" Il nervoso, forse la rabbia verso tutto, lo si sentiva anche solo da quelle poche parole in risposta. "Ne sono sicuro, molto sicuro, perchè Emily è andata via quando la bara della mia piccola principessa è stata coperta dal terriccio sul quale ho posato i firi questa mattina."

"Le sto dicendo che sta mentendo sia a se, che a me." Sento l'orologio suonare la fine dell'ora e lo vedo alzarsi, quasi soddisfatto del fatto di non voler parlare di lei. "Ci rifletta. A lungo. La prossima volta voglio che lei mi dica la soluzione della questioni che si pone continuamente, perchè è tutto concludibile."

***

Quando chiude la porta alle sue spalle, riesco a vederla con maggiore attenzione: sotto gli occhi un'ombra di colore scuro, che sembrava quasi abbinarsi con i bulbi rossi. Mi guarda dalla testa ai piedi, come fosse la prima volta che ci incontriamo. Ho notato, dopo mesi dietro questa scrivania, che si preoccupa sempre che tutto vada come nei suoi pensieri.

Secondo lei, tutto deve andare secondo i piani, che sia un pregio o un difetto per gli altri.

Emily ha sempre avuto il difetto di notare le minime cose sbagliate e non le maggiori cose giuste, così dice sempre suo quasi-non-più marito.

"Ma ti cambi mai?" Sbotta, improvvisamente, sedendosi al suo solito posto. Ridacchio, provando a mettermi nei suoi panni e ad infliggerle il suo stesso carattere menefreghista.

"Sono costretta ad indossare abiti adatti alla mia professione, Signora Horan."

"Non più.- Si volta, incrociando i miei occhi, con quel chiaro che mi infligge, come se avessi appena commesso il più grande peccato sulla terra. –Non lo sono più, non è necessario che mi chiami in quella maniera."

"Siete ancora sposati, secondo la chiesa."

"Non mi piace la religione, allora." La sua voce arriva dura, graffiante alle mie orecchie e non sembra dispiacerle.

Anche io non sono dispiaciuta del mio essere diretta ed estremamente esterna alla situazione. Spesso mi dicono che sono priva di sentimenti. Forse, anzi, molto probabilmente, ciò è anche dovuto al fatto che sono sempre stata dell'opinione che il mio cuore avesse solo la funzione di pulsare sangue alle vene, non aveva proprie opinioni, sentimenti, emozioni, non credo nel fatto che esso possa appartenere a qualcuno. I miei occhi descrivono ciò che vedono, il mio cervello assimila ciò che è realtà, il mio cuore permette a tutto, scientificamente, di funzionare alla perfezione, tutto qui. Non sono mai stata sentimentale, perché sono sempre stata realista.

E, da realista, noto che Emily è cambiata dalla morte di sua figlia.

Gli occhi sono spenti, spesso la sua voce costantemente impacciata, quasi come se qualcosa la bloccasse dal parlare. Nonostante lo negasse, è ovvio a chiunque che si sfogasse solo nel bere.

Emily non sembra non essere nemmeno più umana, continua a guardarsi attorno, cosciente di avere l'intero corpo che non riesce a rispondere. Continua a dirsi che tutto è giusto, continua a proibirsi di uscire dal suo mondo figurato. Se non fosse per la pazienza che ho dovuto assimilare durante gli anni di lavoro, probabilmente le direi che no, non potevo sopportarla.

"Come sta andando con le pasticche?"

"Vomito spesso. Penso di doverle cambiare." Dice, la voce ora è più pacata, ma i suoi occhi rimangono puntati a terra. Proprio nel momento in cui le stavo per chiedere di guardarmi, alza lo sguardo ed incrocia il mio. "Ho perso quattro chili, dall'inizio del mese. Qualche volta sento il bisogno di sdraiarmi, ma non penso di poterlo fare perché se le cose non le faccio io, in quella casa, figurati se lo fa quello sfaticato." So perfettamente a chi si sta riferendo, con quello sguardo privo di vita. Sembra quasi che sia una morta vivente.

"Vomita perché non è permesso bere alcolici quando si è sotto cura di esse, Signora. Per questo dovrebbe smettere di bere alcol come fosse acqua e bere più quest'ultima."

Si alza, annuendo e guardando l'orologio. "Dovrei proprio andare." Alzo lo sguardo, nella direzione del suo e poi mi rivolgo a lei. Dovevamo ancora parlare, per più di trentacinque minuti. "Ho di meglio da fare che sentirmi dare ordini."

"Pensa di vomitare fino a morire?"

"Spero di vomitare fino a morire." Sorride debolmente, in modo amaro, prima di fare pochi passi e solcare la porta. Mi alzo di scatto, chiudendo la porta alle sue spalle. Lei è l'unica, e tengo a sottolineare quest'ultima parola, che riesce a superare la soglia della mia pazienza e farmi andare il cervello in tilt. Sarei capace di scordarmi in che ruolo mi trovo pur di farle del male psicologico e farle capire che cosa sta facendo, o meglio, il male che si sta facendo.

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