Capitolo Otto

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Scruto ogni suo lineamento; lo sguardo è pensieroso, mentre si concentra sulle sue dita che si strofinano nervosamente l'una contro l'altra. È in silenzio, in un silenzio assordante che non sa nemmeno lui come spezzare, ma so, grazie al mio sguardo che ancora lo scruta da testa a piedi, che mille urla si stanno facendo spazio nel suo stomaco, pronte ad uscire fuori, come i mille sfoghi che rimbombano nel suo cervello come fossero chiodi fissi contro un muro distrutto, che ancora stanno martellando insistenti.

"Signore, desidera un bicchiere d'acqua?" Abbasso il tono della mia voce per renderlo più cauto, più dolce, nella speranza che il volto si alzi verso di me.

"No.- sbotta quasi, alza lo sguardo, mantenendo la testa bassa.- Voglio andarmene, posso?"

"Sono obbligatori almeno quaranta minuti di seduta, a causa dell'ultimo tragico avvenimento." Sorrido malinconica, pensando a come quella coppia abbia sentito la morte della loro piccola bambina.

Ridacchia, amaro, passandosi una mano tra i capelli. Scuote la testa, non sapendo quale offesa affibbiarmi, probabilmente. "Vaffanculo.- alzo le sopracciglia, aspettandomi delle scuse che, come sempre, sarebbero dovute arrivare esattamente il minuto dopo; mi guarda, dritta negli occhi, alzando un lato delle labbra carnose.- Vaffanculo." Ripete, facendomi sorridere amara - questa volta mi sbagliavo.

Rimango composta sulla mia sedia; a causa della professione che seguo amabilmente, non posso reagire di tutta risposta. "Va bene, ha qualcos'altro che desidera dirmi?" Annuisce, poco stupito dal mio tono tranquillo. "Che cosa?" Incrocio le braccia al petto, poggiandomi poi alla scrivania.

"Ho commesso un reato." Dice, abbassando il tono di voce. La gola si secca, sento il cuore battere più forte, ma nella mia testa ripeto di dover mantenere il mio corpo fermo, i miei occhi immobili, fissi su di lui. Deglutisco a fatica, facendo cenno di andare avanti. Le sue mani si alzano dalla poltrona, mentre scuote la testa sconsolato, le sue labbra si piegano verso il basso, quasi non gli importasse di ciò che mi ha appena confessato. "Tutto qua."

"Chi ha ferito?" Parto con il presupposto che abbia almeno alzato le mani su qualcuno, notando sulle sue nocche un leggero rossore; la rabbia che in lui cresce ogni giorno di più lo rende pazzo, malato.

"Il cassiere o probabilmente uno del personale." Alza le spalle, le sue iridi si alzano al cielo e sbuffa, notando il mio volto confuso. "Non voleva che prendessi l'alcol per Emily."

"Forse si aspettava che gli mostrasse i documenti." Rispondo ovvia.

"Non le avevo pagate, le ho rubate."

Scuoto la testa, non sapendo dove mettere le mani, non sapendo come poter aiutare quella coppia ormai rotta, bruciata. Eppure lui cerca, sconsolato, ed oserei dire, ormai senza speranza, di prendere le ceneri e ricomporle. "Perché si è ostinato a prenderle, se anche lei non è d'accordo con l'alcolismo della Signora?"

"Perché l'avrei resa felice." Vedo i suoi occhi illuminarsi, ma non si lascia distruggere dall'emotività, ricomponendosi. "L'avrei lasciata nel suo piccolo, grande mondo, l'avrei abbandonata alla completa auto-distruzione. Ma l'avrei lasciata felice."

Aggrotto le sopracciglia. "Nella mia lunga esperienza ho imparato che non c'è niente di bello nel vedersi distrutti, Signore. Ho visto uomini tornare dopo assenza di settimane con le borse sotto gli occhi, fasce a contornare le braccia rovinate. Ho sentito mamme che, disperate, piangevano i loro figli, i loro mariti, lacrimavano come se nulla avessero più, mettendo le mani davanti al viso per non far vedere le lacrime che scavavano nel loro animo distrutto. Nessuna di queste persone ha mai ammesso di stare bene nel loro ambiente, nella loro depressione."

"Emily non è come loro, evidentemente." Ridacchia amaro, alzando le spalle, quasi come la mia spiegazione non lo sfiorasse neanche; il suo sguardo malinconico mi fa comprendere quanto in realtà si stia aprendo a me con queste parole. "Emily non vuole uscire da tutto questo, lei sente il bisogno di immergersi completamente, fino a toccare il fondo, a grattarlo a tal punto di non avere più le unghie e le forze per farlo. Lei è incredibilmente masochista e desidera, cerca, il dolore, vuole che l'affligga per farle pagare colpe che neanche esistono. Emily si sente colpevole di tutto, da quando Daisy non è più tra noi. Nella sua mente ormai non sana, è colpevole della polvere sul tavolo che si è scordata di pulire, è colpevole dei miei capi non lavati perché la lavatrice è troppo piccola per fare un intero bucato e ogni volta ne deve fare più di uno, è colpevole persino di una spesa mancata a causa di una dimenticanza."

Guarda l'orologio attaccato al muro, dietro alle mie spalle, alzandosi. "No.- dico di colpo, alzandomi, alla sua altezza.- La prego, si sieda, continui."

Molte volte ho avuto ragazzi come lui, i quali sembrano senza emozioni, come rocce, quando in realtà si tratta semplicemente di fragile vetro. Il suo discorso mi ha colpita, sento il cervello procurarmi mille quesiti e il doppio delle risposte. Ho mille frasi da scrivere, troppi appunti da aggiungere alla sua cartella. Il suo altruismo verso una ragazza che tutti considererebbero un'alcolista senza alcuna speranza, mi ha stupita, lasciata senza parole.

Alza l'indice, verso le lancette che vanno a formare un angolo acuto. "Sono passati quaranta minuti." Si volta e, con passo disinvolto, esce dalla stanza, lasciandomi lì, con le mani poggiate sulla scrivania in vetro.

Abbasso lo sguardo, pensierosa. Idee mi vagavano per la testa, sbattendo tra di loro come saette impazzite. Chiudo gli occhi, mentre la porta cigola, aprendosi. Alzo lo sguardo, sorridendo alla cliente ora davanti a me. "Buongiorno." Sussurra, sorridendo timida; appoggia la mano pallida e secca contro lo stipite, chiedendo se possa o meno entrare.

Alzo un dito, facendole segno di aspettarmi fuori. Pochi attimi dopo, mentre tengo la mano poggiata sulla cornetta del telefono, l'indecisione s'impossessa della mia sicurezza. Sospiro, prendendo una decisione ed alzando l'oggetto in plastica nera. Compongo il numero, sentendo comunque una percentuale di me che mi prega ancora una volta di non farlo.
Squilla una volta, una seconda; una voce giovanile mi risponde, è un ragazzo.

Sospiro l'ennesima- ed ultima- volta, poggiando il medio ed il pollice sulle tempie. "Vorrei denunciare un reato."

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