Capitolo tre

523 69 18
                                    

Mi siedo, portando il piatto lentamente verso di lei, mentre mantengo la calma, nonostante le mie dita tremino dall'incredibile nervoso.

"Lo farai ancora?" Indico la bottiglia, sul lavandino mentre lei scuote la testa. Sbatto le mani sul tavolo, serrando la mascella mentre scruto quel viso dolce: nulla, il vuoto dentro di me, come se i sentimenti che una volta provavo, fossero svaniti, mai esistiti. "Parla, porca puttana!"

"Si!" Urla, alzandosi e guardandomi negli occhi. I miei occhi seguono il suo corpo, che si sposta lentamente verso di me. "Mia figlia è morta."

"Nostra.- la correggo, corrugando le sopracciglia. -Era nostra figlia. Sto soffrendo anche io." Ribadisco; mi lecco le labbra, passando una mano tra i capelli spettinati mentre guardo il suo posto ormai vuoto. La immagino lì, come una volta, sorridente, solare, come se ogni giorno fosse una nuova vita, come se le brutte cose precedenti non fossero mai accadute. Sbatto le palpebre, tornando alla realtà: la sedia è vuota. Stringo la mano contro la testiera in legno di questa, sbattendola a terra con forza. Alzo le mie maniche, indicando le vene che quasi esplodono sotto la pelle liscia e pallida, priva di ferite, che precedentemente vi erano sempre. "Ho smesso di farlo." Ed è vero: ho smesso, da mesi, di inserire quegli aghi pungenti nel mio braccio, iniettandomi roba nociva nel corpo.

"Quindi?" Emily ridacchia, ipocrita, alzando le spalle. "Tu credi in Dio, in tutta quella merda li? Daisy è morta. Non è nel cielo, nè in terra. Non è da nessuna parte perché-"

"Tappati quella cazzo di bocca!" Urlo, spingendola contro il tavolo ed i suoi occhi tornano limpidi, del colore giovane in cui la conobbi. "Noti cosa sei? Dove sei finita?" Tocco, tremante, la sua guancia, calda, sotto gli occhi lucidi. Sento il mio cuore scaldarsi, far sciogliere il ghiaccio che intorno si è creato a quella vista: nonostante tutto, è pur sempre Emily e vederla così, mi fa male, mi distrugge. "Cosa siamo adesso? Dove siamo finiti?"

"Nel nulla." Risponde, fredda, indifferente come per schiacciare ciò di cui stiamo parlando e questo mi fa sentire inutile, incapace di rispondere alle sue parole semplici quanto pesanti. "Quella chiamata.- i suoi occhi si socchiudono ed i suoi piedi sfiorano i miei, la vedo più vicina a me di quanto già non fosse prima. -Quelle parole, quelle urla sono state come un buco nero. In poco tempo, in così pochi mesi, ci ha inghiottito, ci ha distrutto." Smetto di ascoltarla, sono abbracciato dal soprappensiero; le sue labbra morbide si sfiorano con le mie mentre i ricordi riaffiorano nella mia mente: ricordi di come le mie mani sfioravano i suoi fianchi, spingendola contro di me mentre sorridevo ai miei pensieri perversi, riaffiorano nella mia mente; il momento in cui si sedeva, ridacchiando, sulle mie gambe. Il mio flusso di pensieri viene interrotto dalla sua voce calda e infastidita, dalle sue mani che mi allontanano. "Nemmeno mi ascolti!" Urla, infilando una mano nei capelli per scuoterli, come spesso faceva ultimamente, in preda allo stress.

"Pensavo ad altro." Ammetto, senza filo di emozione nelle mie parole.

"A cosa? Alle tipe che ti sbatti quando io sono qui, in preda alla tristezza? Mentre bevo e tu te ne freghi?"

"Mentre tu bevi, io lavoro per guadagnare i soldi che tu spendi in alcolici.- punto il dito contro di lei, irrigidendo la mascella; mi volto, pronto ad uscire della stanza quando la sua frase mi ribolle nella testa.- Pensavo a noi. Perchè comunque, io per te non saró nulla, ma tu per me sei ancora qualcosa."

"Che vuoi dire?" Ridacchia, nuovamente, amara come il veleno, mentre si avvicina a me.

Alzo le spalle, voltandomi. La vedo qui, vicina, con il suo metro e sessassantre che la fa sembrare quasi una bambina in confronto a me, con i suoi occhi chiari che ultimamente nemmeno notavo spesso, occupato a non volerla guardare. "Non lo so, esattamente, cosa mi stia prendendo- ammetto, provando ad aprirmi davanti a lei. - Solo che sono cosciente che se qualcuno ti facesse del male, m'impoterebbe più di quanto dovrebbe."

"Noi non stiamo insieme." Si allontana, poggiando una mano sul mio petto per allontanarmi, scuotendo la testa lentamente. "Non siamo più quelli di prima, non siamo più diciottenni."

"Quindi?" Il suo discorso ha un risolto comico, perchè non ha minimamente senso. Come se la nostra età potesse dettare tutta la nostra vita, il nostro destino, la nostra storia.

"Non provo niente per te. Stare insieme sarebbe una presa in giro, per entrambi."

E per quanto pensavo che la cosa non mi interessasse, sento il mio cuore subire un colpo.

PSYCHO 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora