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Non soffrivo, non più.
Non provavo alcuna emozione.
Era tutto fermo, rimasto immobile e inalterato per un tempo che mi sembrava non finire.
Il dolore mi aveva abbandonato, come la consapevolezza di essere morta.
Ormai ero arrivata alla conclusione di essere viva da quelle che sembravano ore.
Ci avevano addormentato, era cloroformio l'odore che avevo sentivo, e ancora permeava l'aria rendendo difficile inspirare ossigeno. Ciò che non mi spiegavo, tra le altre cose, era il motivo per cui lo riconobbi, con fin troppa facilità.

Nulla sembrava avere un senso da quando ero sveglia. La mia esistenza, per quel poco che sapevo, apparentemente non portava uno scopo da tanto e, anche adesso obbligata su una sedia, mi sembrava tutta una farsa, una storia già vissuta.
Perché portarci fin qui per poi addormentarci?
Era quella la punizione che dovevano infliggermi?
Ormai, però, avevo smesso di cercare convulsamente le risposte tra i miei pensieri. Era inutile, perché nel momento in cui cercavo qualcosa tra gli scaffali della memoria trovavo solo quelle immagini di dolore e disperazione che sul treno mi avevano assalito, togliendomi quel poco di autocontrollo che avevo.

Mi ero risvegliata in quella stanza buia, se non avevo sbagliato i miei calcoli, tre ore prima, legata alla sedia su cui mi dovevo trovare ancora da più tempo. Segno tangibile era il non sentirmi più le gambe, avevo completamente perso la facoltà di muoverle. Ad un tratto, mi era anche passata l'idea che mi avessero immobilizzata per eventuali intenzioni di fuggire, ma il formicolio, che mi innervosiva solo di più, mi ricordava che ciò non era possibile.
Vani, erano anche i miei tentativi di capire dove mi trovavo e cosa ci facevo lì.
L'unica visuale che avevo terminava poco più il là della sedia grazie all'unico spiraglio di luce, sul soffitto della stanza, che, per altro, era anche la causa del dolore che provavo alla testa oltre al cloroformio.
Eppure, malgrado tutto, riuscivo a percepire una sagoma, un'ombra, che
se ne stava nascosta nella penombra ad osservarmi.

Stavo affrontando tutto con ironia, il che non era un bene, anzi il segno di una pazzia che stava prendendo il sopravvento.
In parte era nuovamente colpa del cloroformio. Sentivo che aveva ravvivato il delirio e la schizofrenia. Li sentivo miei, come se tutti questi anni - perché ero certa che mi avessero tolto molti anni della mia vita - fossero stati una peculiarità della mia persona.
Ed ora, che mi ero risvegliata immune ad essi tutta quella situazione aveva destato una bestialità che mi metteva paura.
Di cosa ero veramente capace?
Forse lo avrei scoperto molto presto. Non mi incuteva timore il luogo, quei soldati, persino la cosiddetta punizione, mi agitava sapere cosa ero stata veramente, perché non volevo di nuovo vedere quelle immagini, come se ne fossi stata la causa tanto tempo prima.

La luce del lucernario iniziò a dipingersi di arancione, segno che ormai il giorno stava cedendo il posto alla notte.
Ero stanca, diventavo sempre più debole.
Ero stanca di dover lottare con i miei pensieri, le mie domande che premevano per tramutarsi in parole. Ma era quello che volevano loro e non li avrei mai accontentati. Sarei rimasta immobile finché non avessero smesso di 'studiarmi'.
Non sentivo neanche il flebile rumore del suo respiro. Solo il silenzio, interrotto dal flusso dei pensieri che vorticava nella testa.
La preoccupazione per gli altri, per lui, poi mi privava delle poche forze rimaste.
Anche loro erano in quelle stesse condizioni? Si erano risvegliati? Erano morti?
Spero di no, pensai. Mi restava solo che sperare, del resto era anche su quello che loro puntavano.
Ma cosa volevano da noi, restava un interrogativo fisso.

Cercavo di ipotizzare eventuali vie d'uscita, porte, corridoi per porre fine a tutto quello.
Ero stanca, volevo finirla all'istante.
Anche la morte ora non sembrava tanto un male, quasi potesse cullarmi tra le sue braccia. Ma io ero già morta dentro, non avevo niente, solo il vuoto. Pertanto anche una morte fisica non poteva che porre fine allo strazio dei miei pensieri che mi tormentavano.
Piegai la testa chiudendo gli occhi, quasi sperando di riaddormentarmi, ma non ci riuscii.
Alzai il volto solo quando sentii dei passi ponderati farsi sempre più vicini.
Il ticchettio delle sue scarpe mi fece pensare che fosse una donna. Di fatti quella figura, dal fisico alto e snello, si era mossa. Non vedevo il suo volto, solo il camice bianco, reso rosso dalla luce del vetro, che adesso appariva nel buio della stanza.
Mi ricordai le parole del colonello, doveva essere lei.
Era quel dottore che doveva punirmi per la mia fuga. Ma io sarei rimasta immobile, anche di fronte alla morte. Non mi avrebbero mai buttato giù.

WORN DOWN [In REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora