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Dove mi trovo? continuavo a ripetermi questa domanda mentre il mondo intorno a me sembrava dormire. O forse ero io?
L'odore di disinfettante mi stava dando la testa, aumentando il dolore che provavo. Le palpebre erano pesanti, il respiro corto, sembrava che un peso mi stesse schiacciando sulla superficie morbida su cui ero sdraiata.
Non sentivo nulla, tutto intorno a me era silenzioso fatta eccezione per i pensieri che si riversavano nella mia mente cercando di capire come, e soprattutto perché, mi ritrovavo di nuovo in quelle condizioni. Ormai, era la terza volta che mi risvegliavo senza sapere quando mi ero addormentata.
Poi, man mano che riacquistavo il controllo delle mie facoltà i ragionamenti divennero più limpidi permettondomi di ricordare quello che mi era successo, e tutta l'agonia che avevo provato tornò. La stanza, la sedia su cui ero legata, la donna, le sue parole, il fuoco che divampava e che io stessa alimentavo.

Era tutto vero. Tutto.

No...

Istintivamente mi sollevai di scatto riuscendo ad aprire le palpebre, ma non vedevo nulla, solo macchie indefinite che mi confondevano. L'unica cosa che riuscivo a distinguere erano le linee irregolari di un celeste accesso che dovevano corrispondere alle vene. Era il fuoco che scorreva assieme al mio sangue.

Allora era la realtà.

Avevo desiderato ardentemente di ridurmi a nulla, di non esistere più dopo l'angoscia che mi era stata inflitta in un solo giorno.
Stavo male da cento anni, stavo maledettamente male e a nessuno importava. Nessuno lo vedeva, perché io ero il nulla, io ero il mio stesso male e il male degli altri.
Io non dovevo esistere, non dovevo essere lì. Volevo il buio, gli aghi infilati nelle braccia, il nulla. Diventare il vuoto che ero per gli altri, e semplicemente non essere più. Volevo urlare, buttare fuori tutto quello che provavo. Lacerare la carne, strapparmi via con le unghie il fuoco che mi era stato iniettato nella speranza di trovare sollievo.

Mi avevano tolto tutto, la mia umanità, la mia esistenza. Rimosso quello che io ero, la mia identità, per lasciare il fuoco, il vuoto e le incertezze di chi ero veramente.

Un mostro, non potevo essere altro.

Mi scorreva il fuoco nelle vene, lacerando i miei tessuti, consumando la mia vita.
Il fuoco distrugge tutto ma, stava distruggendo anche me, che ero l'unica a poterlo alimentare, la più inadatta.
Avevo la netta sensazione di portarmi il peso di un ricordo, di un evento che mi rendeva un mostro. Il semplice fatto di avere quel fuoco, un'arma così potente mi rendeva colpevole.
Magari non dovevo sentirmi in colpa per quel fuoco, magari dovevo lasciarmi trasportare da esso e farlo accettare agli altri.
Forse era l'unico sollievo, dovevo, no... volevo bruciare.
Anche una sola parola poteva scatenare l'inferno. E sentivo che non ci sarebbe mai stato modo di fermarlo.

Io ero l'inferno, io ero il dolore. Io volevo bruciare perché del fuoco sarebbe rimasta solo la cenere, e nessuno l'avrebbe notato che ero volata via.

Sì... forse ero già polvere che nessuno aveva spazzato via, o forse erano proprio gli altri ad avermi reso polvere.

Trasportata dai pensieri, non mi ero resa conto che avevo di nuovo chiuso gli occhi, perciò li riaprii per il caldo e le mani, che per la seconda volta, pizzicavano.
Quando li riaprii la vista era tornata nitida, ma quello che vidi mi spaventò.
Ero terrorizzata da me stessa.

Quella che doveva essere un'anonima candida stanza d'ospedale era stata ridotta in cenere.. da me, le braccia ancora stese verso qualcosa di indefinito.
I display che segnavano i miei valori, i sensori a cui ero collegata, gli innumerevoli lettini attorno a me, ogni cosa era ridotta in cenere. Per qualche strana ragione faceva eccezione il mio lettino seppur ridotto a brandelli, come anche il camice che avevo addosso e che ora copriva ben poco del mio corpo.

WORN DOWN [In REVISIONE]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora