12. Regina madre

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Non mi è mai piaciuta la metropolitana. Se posso scelgo sempre i mezzi di superficie o, meglio ancor, vado a piedi. Trovo fastidioso non ricevere alcuna impressione dal viaggio: si scende in un punto e si risale in un altro, e nel mezzo niente, come se a un film fossero stati strappati dei fotogrammi.

E poi -forse dipende dalle luci- tutti sembrano miserevoli a bordo di quelle carrozze anonime, uniformemente appiattiti dal' aura verdognola di una sorte comune. Tutti a parte lei, una ragazzina a cui non  avrei dato più di 15 anni, alta forse un metro e mezzo, esilissima e ammantata in una cascata lussureggiante di capelli dai riflessi blu. L'avevo notata già in superficie, camminava ritta a passo di marcia nonostante il voluminoso fagotto che portava allacciato alla vita. Si trattava di un infante, di un anno o forse più, avvolto in un sacco-piumino rosa e assicurato in un'imbragatura che lasciava le gambine penzolanti. I piedini sfioravano le ginocchia di colei che lo trasportava, il visetto addormentato abbandonato  sul seno appena percettibile.

La ragazza camminava con lo sguardo fisso in avanti, nell'attraversare la strada col rosso, senza voltarsi e senza rallentare, semplicemente mostrando il palmo agli automobilisti, in un gesto imperioso di piccola regina. Il traffico paralizzato. Lei si era inabissata nella metro. Salita sulla mia carrozza, aveva rifiutato il posto offertole. Era rimasta in piedi, immobile e slanciata come una colonna corinzia e incurante di quella superfetazione rosa, di quella sorta di prolungata e ingombrante gravidanza extrauterina.

Testa alta e sguardo fisso in avanti, non un battito di ciglia.

Era davvero bellissima.

Umanità in pilloleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora