Solo un modo per dire "grazie"

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Due giorni dopo si decise a telefonarle. Lei rispose dopo un bel po' di squilli, con il fiatone.
«Pronto?»
«Emma?»
«Sì, sono io!» fece una pausa, poi esclamò: «Cominciamo con le lezioni di chitarra, vero?»
Scoppiò in una risata convulsa e lui fu tentato di attaccarle in faccia.
«Frena un attimo» la interruppe, con tono brusco. «Ho chiamato solo per ringraziarti per i biscotti.»
«Ti sono piaciuti?»
Il suo entusiasmo lo urtava. Certo, erano buoni, ma che bisogno c'era di fare tutte quelle scene?
«Senti, ora devo attaccare. Ho altro da fare.»
«Oh, anche io. Devo andare a una mostra in città. Anzi, perché non vieni con me?»
Non aveva ascoltato quello che aveva appena detto?
Dopo un paio di secondi, lei esclamò: «Ho sentito che hai da fare, ma non ci credo. È domenica pomeriggio e dato che ti sei preso la briga di telefonare a una tizia fastidiosa come me, non hai niente di meglio con cui occupare il tempo. Ho indovinato?
«Ciao...»
Lui stava per riattaccare, quando Emma strillò nella cornetta, assordandolo.
«Dimmi almeno come ti chiami.»
«T'importa così tanto? Perché?»
«Perché non dovrebbe importarmi?»
«Sono un perfetto sconosciuto per te.»
«Non lo sarai se saprò il tuo nome. Non voglio che tu lo sia. Chissà, tra qualche anno ripenserai ai miei biscotti o ti chiederai che fine ha fatto la tizia che te li ha preparati.»
«Devi toglierti dalla testa tutte queste idee ingenue. Te lo dice uno che a venticinque anni ha ricevuto tanti calci in culo dalla vita.»
Lei si morse la lingua. «Se verrai, uomo senza nome, sarò a Palazzo Ducale tra mezz'ora. Ti aspetterò per un quarto d'ora, dopodiché mi godrò quella splendida mostra da sola.»

*

Adorava quella pittrice. Era stata una delle prime donne nella storia del suo paese a raggiungere una tale notorietà. Il fatto che avesse avuto una vita difficile gliela faceva apprezzare e ammirare ancora di più.
Aveva aspettato per mezzora fuori dal palazzo, ma lui non si era presentato. Era davvero un peccato. Pensava, dopo quella telefonata, che lo avrebbe convinto ad andare alla mostra con lei. Avrebbe dovuto escogitare un altro modo. Però i biscotti gli erano piaciuti: l'aveva ringraziata. Aveva portato con sé un altro dono per lui; questa volta le forme dei dolcetti erano più regolari e nell'impasto aveva aggiunto delle gocce di cioccolato. Le era dispiaciuto molto quando aveva fatto cadere il primo pacchettino, ma era qualcosa che non riusciva a controllare...
Scosse la testa e riprese il suo giro, ammirando ogni opera e spalancando gli occhi più di quanto ogni altra persona facesse.
Uscì dal palazzo che era quasi l'ora di chiusura della mostra, si era attardata molto senza rendersene conto.
Controllò il cellulare, ma non c'erano chiamate né messaggi, poi alzò gli occhi e lo vide dall'altro lato della strada, gli occhi scuri puntati su di lei.
Sventolò una mano per fargli capire che l'aveva visto. Un taxi si fermò, credendo che avesse bisogno di un passaggio. Disse al tassista che non doveva andare da nessuna parte con un grosso sorriso, poi attraversò la strada saltellando e frenò giusto in tempo per non cadere tra le braccia del moro.
Agitò gli arti come una bambola impazzita per non perdere l'equilibrio e lui si ritrovò suo malgrado a sorriderle.
«Allora li hai ancora tutti i denti, eh, Marco?»
Lui inarcò un sopracciglio scuro. «Come mi hai chiamato?»
Lei si strinse nelle spalle. «Ho cominciato questo gioco: dato che non vuoi dirmi come ti chiami, tenterò finché non avrò indovinato.» Si mise le mani sui fianchi e lo fissò con aria risoluta.
«Un gioco molto divertente, wow.» Assunse un'aria sarcastica e continuò: «Chissà che bel premio ci sarà in palio se indovini.»
Lei annuì. «Non puoi neanche immaginare.»
Dato che lui rimase in silenzio a guardarla con i suoi occhi scuri e indecifrabili, la biondina balbettò: «Una cena con te, Lu-Luca.»
L'altro scosse la testa. «Senti, dato che è tardi e ho fame, lascia perdere il tuo stupido gioco, alla cena di stasera ci penso io.»
«Ok» concesse lei, prendendolo a braccetto, poi fece una smorfia. «Però rimangiati quello che hai detto.»
Lui si scostò, il suo volto era troppo vicino, però lei rimase aggrappata a lui. Non aveva mai conosciuto una persona così sfacciata. Chi le diceva che lui non era un malintenzionato?
«È proibito dire che si ha fame?»
Lei scosse la testa e un profumo di shampoo alla frutta gli inondò le narici.
«La faccenda del nome. Il tuo nome non è stupido, ecco.» Ci riprovò: «Paolo!»
Lui scosse la testa. «Ora basta, andiamo a mangiare.»
Lei sbuffò e si lasciò guidare adattando la sua andatura trotterellante a quella tranquilla e decisa di lui.
Chiacchierò di cose senza senso per tutti i trecento metri che li separavano dal piccolo ristorante dove aveva deciso di portarla lui.

***

Finalmente Emma ce l'ha fatta a farsi portare a cena fuori, la sua testardaggine è servita a qualcosa!
Grazie a chi legge e segue la storia!

Maria C Scribacchina

Le cose che vorrei cambiareDove le storie prendono vita. Scoprilo ora