Lo guardavo assopito, io non riuscivo a chiudere occhio. Lui continuava a dormire tutto il giorno, aveva spesso gli incubi. Miravo il viso di cui mi ero innamorata un tempo. Così giovane e dolce, una volta. Non ho mai potuto condannarlo, nessuno dovrebbe subire ciò che ha subito lui. Eppure, non potrò mai dimenticare il terrore e il dolore che mi ha provocato. Stavo lì, distesa su di un fianco tenendomi la testa con la mano destra. Dovevo stare discostata da lui se non avrei voluto patire le sue stesse sofferenze, se non avrei voluto soffrire la peste. I suoi capelli erano sbiaditi, non erano più biondi e i suoi occhi erano vuoti, il corpo era divenuto esile come non lo era mai stato e ricoperto di bolle che nessuno osava toccare. E aveva bisogno di me. Quante volte pregai Dio di farsi raggiungere da Enrico! Eppure era ancora lì, con me, a soffrire. Aveva bisogno di me, con le stesse parole avevo congedato Riccardo. Ah quante volte immaginavo la mia vita con lui, forse avrei trovato la felicità, ma non meritava di vivere quella vita. Non meritava di amare una donna che non avrebbe potuto sposare. Io non meritavo tutta la sua dolcezza, il suo amore. Quei suoi occhi scuri che brillavano dinanzi a me, i suoi capelli sempre scompigliati e il suo sorriso, quel suo sorriso che sembra far star meglio tutto il mondo. Non mi accorsi nemmeno che mi mancava stare con lui, avevo scelto Enrico. Era lui che meritavo, un ubriacone con una vita difficile,un peccatore punito da Dio con la peste. In un attimo mi si ripresentò tutto l'odio nello sguardo di Enrico. Eppure, nonostante maltrattasse me, nonostante facesse del male a me, avrei giurato che non vedeva me ma qualcun altro. I miei occhi si colmarono di lacrime ma una, una sola lacrima ribelle, non riuscì a trattenersi. Scossi la testa e pensai bene di dirigermi all'esterno nonostante fosse buio ed il freddo regnava indisturbato. Indugiai sull'uscio, chiusi le palpebre e ispirai l'aria fredda della notte. Riaprii gli occhi scrutando il paesaggio. Un paio di abitazioni diroccate, qualche lamento e un topo qui e là. Vorrei poter dire che v'era qualcosa di più, e invece era rimasto solo quello. Per questo motivo avevo raggruppato gli abitanti rimasti per allontanarci dal villaggio. Non aveva più nulla da offrirci, ormai. Gli uomini sani erano andati in avascoperta per tracciare un percorso e predestinare una meta; le donne non ancora ammalate avevano provvisto a viveri e ad intrecciare tessuti per coperte e vestiti; io avevo insegnato alle bambine a ricercare le erbe secondo le mie umili conoscenze della medicina derivate da Riccardo, e ho mostrato ai fanciulli le diverse manzioni utili alla sopravvivenza. Avevamo organizzato un villaggio di pochi abitanti autosufficienti, ma le risorse scarseggiavano e i malati aumentavano. Non avevamo altra scelta se non recarci altrove e confidare in Dio. Saremmo partiti il mattino dopo, nonappena il buio avesse ceduto il posto al giorno. Un urlo. Non un urlo come tanti, uno di quelli che senti e non danno pene al tuo udito, uno di quelli che ti lacerano il cuore perchè sai già l'origine di quel grido, sai già che è il grido della sofferenza che si fa sentire in richiesta d'aiuto, l' ultima. D'istinto lasciai che le mie gambe corressero verso il tumulto. «Non è troppo tardi! Non è troppo tardi !» mi ripetevo senza arrestare la corsa. Correvo senza neanche rendermi conto di muovere le gambe, sembrava quasi che i piedi non toccassero terra eppure non ero mai abbastanza vicina. Non c'era neanche un'anima per i sentieri. No, un attimo! Topi! Tantissimi ratti che corrono nella mia direzione. Non mi ci volle molto tempo per intuire l'accaduto. Senza badare ai sudici animali che correvano sfiorandomi le caviglie con il loro pelo ruvido e le loro code viscide, alzai lo sguardo ed ebbi conferma. Avevano appiccato il fuoco. Ero indecisa se proseguire e tentare di salvare delle vite probabilmente già cadute tra le braccia del Signore o se tornare indietro e aiutare Enrico e gli altri. Non avevo tempo, bisognava agire. Panico. Fumo. Topi. Proseguire. No, tornare indietro. Fiamme.
«Al fuoco! Al fuoco!» gridavo mentre correvo per tornare indietro. Rallentavo se scoprivo che qualcuno non mi aveva sentito. Battevo sulle porte gridando. Suggerii, con un tono d'intimazione dettato dalla paura, di radunare gli uomini per accumulare acqua e placare le fiamme e di far rifugiare le donne al di là del fiume. Giunsi a casa, spalancai la porta. Presi le provviste già pronte, arrotolai quel che potei in un fagotto. Mancava soltanto una cosa: Enrico. Non era capace di muoversi da solo, aveva bisogno d'aiuto. Mi avvicinai a lui, lo svegliai, ma non era cosciente. Provai a sollevarlo di peso, ci riuscii ma non avrei potuto trasportarlo per lunghe distanze. Lo poggiai nuovamente a terra. Mi guardai nervosamente intorno. Sospirai e rimandai lo sguardo a mio marito. Mi inginocchiai al suo fianco prima di distenderlo completamente sulla schiena. Un'espressione di dolore si formò sul suo viso, gemeva. Lo aiutai a mettersi seduto, sostenendolo con il braccio destro che gli circondava l'addome ormai troppo sottile, feci passare il suo braccio sinistro intorno al mio collo. Così provai a sollevarci entrambi, dopo pochi tentativi ebbi successo. Affrettai il passo dirigendomi all'esterno. Le fiamme mi penetrarono negli occhi. Fuoco, persone in fuga, urla, pianti. Caos. No, l'inferno. Pensai che avrei dovuto portare Enrico vicino al fiume, ma ci sarebbero state molte persone, troppe. Qualcuno, nel tumulto, avrebbe urtato Enrico peggiorando le sue condizioni e lasciandolo nell'agonia. Non potevo attardarmi, così mi recai verso il primo luogo sicuro che mi si presentò alla mente: i boschi. Riuscii ad evitare le persone possedute dal terrore con non poche difficoltà. Giunsi ai boschi e feci stendere Enrico sul soffice terreno erboso. Mi voltai verso il villaggio. Fiamme. Fuoco. Fuoco e fiamme. Una donna, una donna che corre rincorsa dalle fiamme che le stanno bruciando i capelli. Lui non si vedeva, ma io so che c'era. Mi resi conto che quello scenario, da cui ero appena fuoriuscita illesa lo avevo visto ma non guardato, lo avevo sentito ma non ascoltato,avevo assistito ma non lo avevo vissuto.
Rimasi immobile per qualche istante guardando il mio villaggio andare in fiamme e i suoi abitanti disperarsi. Eppure non mi ero ancora posta una domanda, la domanda.
Chi è stato a causare tutto questo?
Oh lo scoprii ben presto. Improvvisai una veloce corsa verso quel gigantesco falò. Cosa mi aveva spinto fin lì?
Una famiglia, anzi, una bambina che nonostante tutto non stava piangendo, ma si guardava intorno in cerca di una via di fuga per lei e la sua famiglia. Giunta a qualche piede di distanza da lei mi fermai per continuare adagio. Il respiro affannato m'intimava di fermarmi, ma continuai cercando di raggiungere quella bambina e scortarla fino ai boschi. Eccola lì, ormai l'avevo raggiunta. Un nitrito. Zoccoli che battono il terreno. Mi volto di scatto alla mia destra: un qadrupete nero con gli occhi illuminati dalle fiamme scalcia e si avvicina a me con in groppa un uomo appena visibile nel buio della notte e nell'oscurità del suo destriero. Egli teneva una torcia scoppiettante di scintille. Mi scostai in tempo, ma perdendo l'equilibrio e cadendo all'indietro. D'istinto inviai un'espressio ne di superbia al piromane a cavallo, lui mi vide, distolse lo sguardo e proseguì galoppando, lontano da me. Avevo vinto. Udii un grido che mi ricordò che dovevo rialzarmi. Vidi quella bambina con la sua famiglia che stavano dirigendosi al fiume. Sorrisi senza accorgermene mentre pensavo:"Ha compreso che il fuoco si combatte con l'acqua ed è andata verso la salvezza. Noi abbiamo il fiume, non possono nuocerci con le fiamme. Che sciocchi! Non hanno previsto una cosa tanto ovvia. Una cosa tanto ovvia. È così ovvio che anche una bambina ci ha pensato. Non hanno bruciato tutte le case, soltanto qualcuna, soltanto quelle che bastano a..."