Capitolo tredici

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Stavano seguendo da qualche ora il percorso che Ruzzante indicava salendo saltuariamente sugli alberi.
Liliana, talvolta, trovava un cespuglio di un qualche frutto di bosco, e pranzarono con quelli.
La ragazza, mentre il sole iniziava ad abbassarsi sempre meno lentamente, stava gironzolando vicino all’ennesima pianta su cui l’uomo era salito quando, in lontananza, scorse due corna da cervo: due grandi ramificazioni che si confondevano sì nella vegetazione, ma che, una volta scorte, era impossibile non notare.
Allora osservò, affascinata, quella splendida creazione, richiamando alla mente le bestie che suo padre cacciava e con cui abbelliva le varie sale.
Come faceva Maddalena.
Il ricordo delle ore passate le riempì il cervello di dolore.
Chiuse gli occhi e si portò le mani al volto, cercando di non piangere e biascicando una tremante preghiera.
Dopo qualche secondo sentì dei passi sulle foglie del sottobosco, che si fermarono davanti a lei.
Aprì gli occhi, aspettandosi di trovarsi davanti al volto fermo di Ruzzante, ma non fu così.
Due occhi gialli la fissavano sotto quelle misteriose corna.
Liliana, spaventata, urlò, cadendo a terra.
-No, no, calma, calma, calma.- disse l’essere che adesso la sovrastava. Si abbassò: -Di averti spaventata mi dispiace. Scusa.
La ragazza alzò lo sguardo e inquadrò un viso gentile, contornato di capelli che si confondevano con i vestiti laceri, sulla cui testa si stendevano due enormi corna brune.
-Cosa...- mormorò ella, con un leggero fiatone. -Che cosa sei?
-Ramir, Ramir mi chiamo.- disse lui, con un sorriso. -Paura non avere.
In quell’istante Ruzzante balzò felinamente dall’ultimo ramo più vicino al terreno, sguainando Eucratea e alzandola sopra la sua testa. Colpì con gli stivali le sue corna, cadendo per il contraccolpo a terra insieme a lui. L’uomo aveva alzato una seconda volta la spada, approfittando della confusione, quando fu fermato da un grido.
-Fermo, è un ordine!
L’urlo della principessa riecheggiò per gli alberi, alzando due o tre uccelli in volo.
-Non... non sembra ostile.- aggiunse, dopo una pausa silenziosa.
-... non... non lo sono.- balbettò l’essere, ritraendosi leggermente.
L’uomo, ancora congelato nel suo movimento, mosse gli occhi e sospirò, rilassandosi e rinfoderando la spada: -Non era facile capirlo.
Ramir alzò gli occhi sulle sue corna: -Tutti i torti non ha. Ma, vedete, così ridotto sono a causa di un maleficio.
-Un maleficio?- ripeté Liliana, aggrottando la fronte.
L’essere annuì: -Un umano ero anche io, un tempo. Un nobile ero di una delle qua vicino alla foresta città, ahimè, la splendida Parabia. D’amor preso ero per una eterea creatura del limitrofo bosco, Argentina si lasciava chiamare. Del bosco una ninfa era, di una tanto sconvolgente bellezza, e straziante, da gridare dal dolore, per tale irraggiungibile forma. Tanto disperato mi trovavo che pace non avevo. E dopo pianti e grida e anni, di cacciatori un drappello un nefasto giorno la straordinaria ninfa da me portò. Catturata era stata per sbaglio. D’amor folle, la presi, la tenni, l’amai. Lei era un continuo rifiuto, piangente acqua dolce, gli occhi sempre rossi come il mio fuoco, i bruni capelli, più preziosi delle spezie pregiate, spettinati e spezzati. L’Argentina mia sfioriva e io, avente l’amore ma in una foggia distrutta, le chiesi un giorno se felicità, almeno un poca, portar potevo nell’esistenza sua. Lei mi disse sì. Io le chiesi come. ‘Portandomi nei posti della mia gioventù’, disse a me. ‘A esser triste non penserò più.’ Il sorriso vederle? Le labbra baciarle? Quelle parole, quale gioia sentirle! Andammo, per il suo desiderio, io e lei e il mio amore soli, nel posto da lei indicato, nel fitto della foresta, magica, questa. Avvoltaci la solitudine degli alberi, niente fiatava. D’improvviso la mia divinità si scusò, piangente, quasi, prima di nel folto fuggire. La inseguii, ma mai più la trovai. Tuttavia altre entità incontrai, con me furiose per l’intrusione.- abbassò la testa, assieme a lei le maestose corna. -Mi maledissero.
Passarono lievi istanti di silenzio.
-Più non tornai. Queste mie corna, appena viste sarebbero state, attaccato, mi avrebbero. Più non vissi. Pieni di grida i miei pianti furono, che le fate scappavano, o per me pregavano. Questa è la storia di Ramir da Parabia, tuttavia, suo malgrado, Ramir da Foresta.- e tacque.

Liliana batté le ciglia, tirando su con il naso e passando un dito su un occhio, rimuovendo la nascente lacrima. Ruzzante aveva ascoltato attentamente il discorso, una mano sull’elsa di Eucratea, la sua mente un poco confusa a causa dello strano modo di parlare dell’essere.
-Anche io sono innamorata.- proruppe la principessa. -Egli è partito in una guerra senza fine ma, sebbene la tregua, non è tornato. Mi voleva sposare. Non mi ha abbandonato.
Ramir storse il naso: -In probabilità è morto.
-In probabilità è vivo.- rispose per le rime lei, avvampando.
L’essere abbassò la testa, cambiando umore di colpo. -Tu.- si avvicinò a lei. -Tu che mi capisci. Ti prego.
La guardia impallidì, stringendo l’elsa della sua spada.
-Rimani con me.
-Sul mio cadavere!- gridò Ruzzante.
-La mia solitudine... è difficile da sopportare... per favore...- continuò l’altro.
La ragazza, gli occhi spalancati, abbassò lo sguardo, parlando con intonazione sicura: -Io... comprendo i vostri sentimenti, ma non interromperò il mio viaggio.
Ramir si rabbuiò, abbassando gli occhi tra le radici e il terreno.
-Tu rimarrai con me.- mormorò, colpendo con le corna la guardia, con violenza.

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